USA: la nostra guerra è pace

armiPer sgombrare il campo da false aspettative, desidero attenermi a verità molto semplici, talmente semplici che pensavo di proporre il titolo Elogio delle ovvietà, scusandomi fin da ora per l’elementarità di queste mie osservazioni. La sola ragione per cui ho deciso di procedere in questo modo è che i principi più elementari sono rigettati da molti.

In alcuni casi cruciali ciò avviene quasi universalmente, con gravi conseguenze per l’umanità, in modo particolare per quanto riguarda i difficili problemi che ho in mente. Uno dei motivi di tale difficoltà è che questi principi, in campo morale, sono comunemente disdegnati da persone che hanno abbastanza potere per poterlo fare impunemente, essendo esse stesse a stabilire le regole. Abbiamo appena assistito a un esempio drammatico di come queste regole vengono stabilite. Lo scorso millennio è terminato, e il nuovo è iniziato, con una straordinaria ostentazione di autoadulazione da parte degli intellettuali occidentali. Costoro hanno elogiato se stessi e i propri governanti per avere inaugurato una «nobile fase» della politica estera con un’«aura di sacralità», aderendo per la prima volta nella storia a «principi e valori», agendo per «puro altruismo» e seguendo il richiamo di un «nuovo mondo idealistico determinato a porre fine alla barbarie» con un leale partner che capisce – egli solo – la vera nobiltà della missione, diventata ormai la «missione messianica di Bush di trapiantare la democrazia nel resto del mondo» (tutte citazioni da intellettuali e dalla stampa d’elite). Non credo che esista niente di simile nella storia, non troppo gloriosa, delle moderne élite intellettuali. Il traguardo più «nobile» raggiunto negli anni Novanta è stato una «rivoluzione normativa» che ha stabilito una «nuova norma negli affari internazionali»: il diritto degli autonominatisi «Stati illuminati» di ricorrere alla forza per proteggere dai mostri cattivi l’umanità sofferente (1).

La rivoluzione normativa

Come sa chiunque conosca la storia, la rivoluzione normativa non è affatto nuova; essa è stata un ritornello costante dell’imperialismo europeo. Come rivelano documenti riservati, le declamazioni retoriche dei fascisti giapponesi, di Mussolini, Hitler, Stalin ed altri personaggi potenti erano non meno «nobili» e probabilmente il loro grado di sincerità era lo stesso. Gli esempi forniti per giustificare il coro di autoincensamento si sbriciolano alla minima verifica, ma io vorrei sollevare un interrogativo diverso, riguardante le modalità attraverso cui vengono fissate le regole: perché la «rivoluzione normativa» è avvenuta negli anni Novanta, e non negli anni Settanta, come sarebbe stato molto più ragionevole aspettarsi? Gli anni Settanta si sono aperti con l’invasione indiana del Pakistan orientale, che probabilmente ha salvato milioni di vite, e si sono chiusi con l’invasione vietnamita della Cambogia, che ha defenestrato i khmer rossi proprio quando le atrocità erano al culmine.

Prima di allora, l’intelligence del dipartimento di Stato, di gran lunga la fonte meglio informata, stimava i morti in decine o centinaia di migliaia, non per «genocidio di massa» ma per un «cambiamento repentino e brutale», odioso quanto si vuole ma ancora lontano dalle stime di alti funzionari statunitensi i quali nel 1975 avevano calcolato che potessero essere un milione i morti nella carneficina dei bombardamenti e delle atrocità degli anni precedenti.

Gli effetti dei bombardamenti sono stati discussi nella letteratura accademica, ma forse la migliore esemplificazione è rappresentata dagli ordini che Henry Kissinger, alla maniera solita del burocrate obbediente, trasmise ai comandanti militari per conto del presidente Nixon: «Una massiccia campagna di bombardamenti in Cambogia. Qualunque cosa voli su qualunque cosa si muova» (2). È raro che una richiesta di commettere crimini di guerra sia così netta ed esplicita, anche se è normale che venga considerata del tutto insignificante dagli esecutori, come in questo caso. Nonostante sia diventata di pubblico dominio, essa non ha suscitato alcuna reazione. Comunque, quando ci fu l’invasione vietnamita, le accuse di genocidio – che avevano scatenato una furia di massa dal momento dell ascesa al potere dei khmer rossi nell’aprile 1975, con un livello di diffusione di notizie false da fare invidia a Stalin – stavano infine diventando fondate. Dunque, fecero da cornice agli anni Settanta due casi di interventi militari che misero fine a crimini orrendi.

Anche se dovessimo accettare le tesi più estreme espresse negli anni Novanta dal coro degli adulatori dei governanti degli «Stati illuminati», in esse non c’è niente che si avvicini agli effetti – in termini umanitari – del ricorso alla forza che fece da cornice agli anni Settanta. Perché, dunque, quel decennio non ha prodotto una «rivoluzione normativa» in cui la politica estera dei «salvatori» si ammantasse di un’«aura di sacralità»? La risposta è semplice, ma evidentemente indicibile; quantomeno, non ne ho mai trovato alcun cenno nel profluvio di letteratura sull’argomento. Gli interventi degli anni Settanta ebbero due pecche fondamentali: 1) furono effettuati dai soggetti sbagliati: loro, non noi; 2) entrambi furono aspramente criticati dai governanti degli Stati illuminati, e i responsabili del «crimine» di avere messo fine al genocidio furono duramente puniti. Il Vietnam, in particolare, fu invaso dai cinesi con l’appoggio degli Usa – che volevano dare ai «criminali» una lezione per avere messo fine ai crimini di Poi Pot – e poi sottoposto a severe sanzioni, mentre i khmer rossi defenestrati ricevevano dagli Usa e dal Regno Unito un sostegno diplomatico e militare diretto. Ne consegue che gli anni Settanta non avrebbero potuto portare a una «rivoluzione normativa», e nessuno ha mai suggerito il contrario.

Il principio guida è elementare. Le norme sono stabilite dai potenti, in base ai loro interessi e con il plauso degli intellettuali responsabili. Queste norme sono un po’ come degli universali storici. Da molti anni cerco delle eccezioni: ve ne sono alcune, ma non molte. A volte il principio è riconosciuto esplicitamente. La norma per la giustizia internazionale dopo la seconda guerra mondiale fu stabilita a Norimberga. Per portare davanti alla giustizia i criminali nazisti, fu necessario mettere a punto le definizioni di «crimini di guerra» e di «crimine contro l’umanità». Il procuratore capo Telford Taylor, storico di fama ed esperto di diritto intemazionale, ha spiegato candidamente quale fu la procedura seguita: «Dato che nella seconda guerra mondiale entrambe le parti avevano praticato il terribile gioco della distruzione urbana – gli Alleati con un successo molto maggiore – non era possibile contestare quei crimini ai tedeschi o ai giapponesi, ed effettivamente essi non furono contestati. […] I bombardamenti aerei erano stati usati sia dagli Alleati che dall’Asse in modo così estensivo e spietato, che né a Norimberga né a Tokyo la questione entrò a far parte dei processi» (3). La definizione operativa di «crimine» è: «II crimine che avete commesso voi, non noi».

A conferma di ciò, i criminali di guerra nazisti venivano assolti se la difesa riusciva a dimostrare che i loro omologhi americani avevano commesso gli stessi crimini. Taylor conclude che «punire il nemico – specialmente il nemico vinto – per una condotta tenuta anche dalla nazione che detta legge, sarebbe così palesemente ingiusto da screditare le leggi stesse». Questo è vero, ma anche la definizione operativa scredita tali leggi, nonché tutti i procedimenti successivi. Per Taylor, questo antecedente concorre a spiegare perché i bombardamenti Usa in Vietnam non sono stati considerati crimini di guerra. La sua argomentazione, plausibile, scredita le leggi ulteriormente. E alcuni dei processi successivi sono delegittimati in modo forse ancora più estremo, come nella causa che vede la Jugoslavia contrapposta alla Nato sotto la giurisdizione della Corte internazionale di giustizia. Gli Usa sono stati – correttamente – esonerati perché non soggetti, come essi stessi hanno sostenuto, alla giurisdizione della Corte. La ragione è che gli Stati Uniti hanno sì firmato la Convenzione sul genocidio (pertinente in questo caso), ma la Convenzione contiene una clausola in base alla quale essa non si applica agli Stati Uniti. Commentando indignato i tentativi degli esperti legali del dipartimento di Giustizia di dimostrare che il presidente può autorizzare la tortura, il preside della Yale Law School, Howard Koh – che, come vicesegretario di Stato, aveva espresso alla comunità internazionale la condanna di tutte le forme di tortura da parte di Washington – ha detto: «Pensare che il presidente abbia il potere costituzionale di autorizzare la tortura è come dire che ha il diritto costituzionale di commettere uri genocidio» (4).

Quegli esperti legali dovrebbero avere qualche difficoltà a sostenere che il presidente abbia davvero questo diritto. Stimate personalità nel campo della giustizia e del diritto internazionale parlano comunemente del processo di Norimberga come dell’evento che ha segnato «la nascita della giurisdizione universale» (5). Questo è esatto solo se intendiamo «l’universalità» secondo la prassi degli Stati illuminati, prassi che definisce l’aggettivo «universale» come «applicabile solo agli altri», in modo particolare ai nemici. La conclusione appropriata, sia a Norimberga che in altri processi, sarebbe stata la punizione dei vincitori oltre che del nemico sconfitto. Né nei processi del dopoguerra, né in seguito, i potenti sono stati soggetti alle regole: non perché non abbiano commesso crimini – naturalmente li hanno commessi – ma perché godono dell’impunità in base agli standard di moralità dominanti. Le vittime sembrano capirlo piuttosto bene. Le agenzie di stampa riferiscono dall’Iraq che «se dovessero mai vedere Saddam Hussein sul banco degli imputati, gli iracheni vorrebbero i suoi ex alleati americani alla sbarra accanto a lui» (6). Questo evento inconcepibile sarebbe una revisione radicale del principio fondamentale della giustizia internazionale: i tribunali devono essere riservati ai crimini degli altri. C’è un’eccezione marginale, che di fatto conferma la regola. La punizione può essere consentita se si tratta solo di una tiratina d’orecchi, cioè se ignora i veri crimini, o se la colpa può essere attribuita a personaggi secondari, in modo particolare quando non sono come noi. Ad esempio, si ritenne di punire i soldati che avevano commesso materialmente il massacro di My Lai – soldati con scarsa istruzione e semi-impazziti che non sapevano chi poi avrebbe sparato a loro – ma era inconcepibile che si arrivasse a punire coloro che pianificarono e decisero di attuare l’operazione Wheeler Wallawa, un omicidio di massa rispetto al quale My Lai impallidisce (7).

I gentiluomini negli uffici con aria condizionata sono come noi, perciò impuniti per definizione. Oggi in Iraq stiamo assistendo a qualcosa di simile. A questo proposito, possiamo tornare alla trasmissione, da parte di Kissiriger, dell’ordine di Nixon di bombardare la Cambogia. In confronto l’ammissione della Serbia, ampiamente riportata dai media, del coinvolgimento nel massacro di Srebrenica non merita molta attenzione. I rappresentanti dell’accusa al processo Milosevic stanno incontrando difficoltà a dimostrare il crimine di genocidio perché non è stato trovato alcun documento in cui l’accusato ordini esplicitamente questo crimine, o crimini minori. Lo stesso problema è stato ampiamente riscontrato dagli studiosi dell’Olocausto che, pur non avendo naturalmente dubbi sulle responsabilità di Hitler, non dispongono di una documentazione diretta. Supponiamo, comunque, che qualcuno scovi un documento in cui Milosevic ordini alle forze armate serbe di ridurre la Bosnia o il Kosovo in macerie con le parole: «Qualunque cosa voli su qualunque cosa si muova». Se ciò accadesse, i rappresentanti dell’accusa sarebbero soddisfatti, il processo finirebbe e Milosevic sarebbe condannato a parecchi ergastoli per genocidio – a morte, se valessero le leggi degli Stati Uniti. A dire il vero, sarebbe difficile per chiunque trovare un ordine cosi esplicito, perché il termine genocidio, nei documenti storici, è abitualmente usato in riferimento ai crimini commessi dai nemici. Nel caso della Cambogia, dopo che il principale giornale del mondo ha dato la notizia en passant, non c’è stato alcun interesse ad andare a fondo, anche se le orrende conseguenze sono ben note.

Il principio dell’universalità vale solo per gli altri

Un principio etico che dovrebbe essere indiscusso è quello dell’universalità: dobbiamo applicare a noi stessi gli stessi standard che applichiamo agli altri; anzi, più severi. Questo principio dovrebbe essere riconosciuto da tutti, ma in modo particolare dai cittadini più importanti del mondo: i governanti degli Stati illuminati, che si dichiarano devoti cristiani e devoti ai Vangeli, e dunque certamente conoscono bene la famosa condanna dell’Ipocrita. La loro devozione ai comandamenti del Signore non è in discussione. George Bush, riferiscono i media, ha affermato: «Dio mi ha detto di colpire al-Qaida e io l’ho colpita, e poi Egli mi ha ordinato di colpire Saddam, cosa che ho fatto» e «ora sono determinato a risolvere il problema del Medio Oriente» (8). Sempre agli ordini del Signore, il Dio della guerra che il Libro Sacro ci insegna ad adorare sopra tutti gli altri dei. Obbediente, la stampa d’elite riferisce la sua «missione messianica» per risolvere il problema del Medio Oriente – del mondo, in effetti – sulla base della nostra «responsabilità nei confronti della storia di liberare il mondo dal male», secondo le parole del presidente. E questo il nucleo fondamentale della «visione» che Bush ha in comune con Osama bin Laden, e che entrambi hanno copiato dagli antichi poemi epici e dalle fiabe per bambini. Non conosco abbastanza le dichiarazioni di Tony Blair per poter dire quanto egli si avvicini a questo ideale, piuttosto ricorrente nella storia anglo-americana.

I primi coloni inglesi nel Nord America seguivano la parola del Signore quando massacravano gli amaleciti nel «Nuovo Israele» che volevano liberare dal flagello dei nativi. Coloro che li seguirono, anch’essi cristiani timorati di Dio che sventolavano la Bibbia, fecero il loro dovere religioso conquistando la terra promessa, impossessandosene, liberandola da milioni di cananei ed entrando in guerra contro i papisti in Florida. Messico e California. Nel frattempo si difendevano dagli «indiani spietati e selvaggi» scatenati contro di loro da Giorgio III, come proclama la Dichiarazione d’Indipendenza; altre volte, dai «negri fuggitivi e dagli indiani senza legge» che attaccavano americani innocenti, come affermava John Quincy Adams in uno dei più celebrati State Papers della storia americana, scritto per giustificare la conquista di Andrew Jackson della Florida nel 1818 e le guerre sanguinarie contro i seminole. L’evento è di una certa importanza per altre ragioni: quella era la prima guerra che violava il requisito costituzionale secondo cui solo il Congresso può dichiarare guerra. Una violazione ormai divenuta la norma, al punto tale che la si nota appena. Molto tempo dopo le sue spaventose imprese, ormai vecchio, Adams deplorò il destino di «quella sventurata razza dei nativi americani che stiamo sterminando con tanta spietata e perfida crudeltà». Quello era, secondo Adams, «tra i peccati efferati di questa nazione, per cui io credo che Dio un giorno [la] giudicherà». Molti anni prima, il primo ministro della guerra statunitense aveva avvertito che «in futuro, uno storico potrebbe segnare con tinte fosche le cause di questa distruzione della razza umana». Ma si sbagliavano. Dio e gli storici sono lenti nell’adempiere a questo compito. A differenza di Bush e Blair, io non posso parlare a nome di Dio, ma gli storici ci parlano con lingue mortali. Due mesi fa, uno dei più accreditati storici americani ha fatto riferimento en passant alla «eliminazione di centinaia di migliaia di nativi» nella conquista del territorio nazionale.

Una stima che dovrebbe essere moltipllcata per dieci. La reazione è stata inesistente, ma reagiremmo in modo abbastanza diverso se ci capitasse di leggere, sul principale giornale tedesco, un riferimento en passant al fatto che centinaia di migliala di ebrei furono eliminati durante la seconda guerra mondiale. Nessuno reagisce anche quando uno storico stimato spiega che i coloni, dopo la loro liberazione dal governo inglese, «si dedicarono al compito di abbattere gli alberi e gli indiani, per allargare i loro confini naturali» (9). È sin troppo facile moltipllcare gli esempi nel mondo accademico, nei media, nei testi scolastici, nel cinema e altrove. Le squadre sportive usano le vittime del genocidio come mascotte, di solito con delle caricature. Alle armi di distruzione vengono dati a volte nomi simili: elicotteri Apache, Blackhawk, Comanche; missili Tomahawk; e così via. Come reagiremmo se la Luftwaffe chiamasse le sue armi letali «Ebreo» o «Zingaro»? La storia britannica è per molti aspetti analoga. Gli inglesi hanno attuato la loro missione divina dell’evangelizzazione dell’Africa imponendo nel frattempo, in India, «un protettorato misteriosamente posto nelle loro mani dalla Provvidenza», facile da comprendere in un paese «in cui Dio e Mammona sembravano fatti l’uno per l’altro» (10). Figure della massima integrità morale e intelligenza offrirono una versione secolare della fede, in particolare John Stuart Mili, nella sua straordinaria apologia dei crimini britannici scritta proprio mentre essi erano al culmine in India e in Cina, in un saggio oggi considerato un classico della letteratura sull’«intervento umanitario». E’ doveroso notare che ci sono state anche voci diverse. Richard Cobden denunciò i crimini della Gran Bretagna in India ed espresse una speranza: «La Coscienza nazionale, inizialmente allontanatasi dall Inghilterra, si risveglierà prima che sia troppo tardi dal suo letargo attraverso un’ammenda e una riparazione tempestive, la punizione dovuta per i crimini imperiali, e metterà fine agli atti di violenza e ingiustizia che hanno segnato ogni passo del nostro progresso in India». Cobden riecheggiava Adam Smith, che aveva duramente condannato «la selvaggia ingiustizia degli europei», in particolare degli inglesi in India. La speranza di Cobden fu vana. Non è un grosso sollievo riconoscere che i loro omologhi continentali furono ancora peggiori nei fatti, nella negazione di questi e nell’autoadulazione. Nel citare Cobden possiamo ricordare un’altra delle sue massime, oggi quantornai attuale, che costituisce anche un principio etico elementare: «Nessun uomo ha il diritto di prestare denaro, sapendo che questo verrà usato per tagliare gole» (11) – né, a maggior ragione, ha il diritto di vendere i coltelli. La reazione consueta della cultura intellettuale, a parte alcune memorabili eccezioni, è interamente naturale se abbandoniamo il più elementare dei principi etici, e dichiariamo di essere gli unici esenti dal principio di universalità. Ed è questo che facciamo, costantemente. Ogni giorno ci sono nuovi esempi.

Il Senato americano ha appena acconsentito alla nomina di John Negroponte come ambasciatore in Iraq. A capo della più grande missione diplomatica del mondo, Negroponte ha avuto il compito di cedere la sovranità agli iracheni per adempiere la «visione messianica» di Bush di portare la democrazia in Medio Oriente e nel mondo, cosi veniamo solennemente informati. La sua nomina ha a che fare direttamente con il principio di universalità ma, prima di occuparci di questo, possiamo sollevare alcuni interrogativi circa altri principi riguardanti gli elementi di prova e le conclusioni. Nelle notizie e nei commenti giornalistici si da per scontato che l’obiettivo dell’invasione irachena sia adempiere la visione messianica del presidente, anche tra quanti criticano l’invasione perché temono che la visione «nobile» e «generosa» possa essere oltre la nostra portata. Come la rivista inglese Economist ha posto il problema alcune settimane fa, la «missione dell’America» di fare dell’Iraq «un esempio di ispirazione [di democrazia] per i suoi vicini» sta incontrando degli ostacoli (12). Pur avendo fatto una ricerca considerevole, non sono riuscito a trovare eccezioni nei media statunitensi né, con una ricerca molto minore, altrove, a parte i soliti canali alternativi. Ci si potrebbe domandare perché questa dottrina sia accettata nei commenti degli intellettuali occidentali in modo, a quanto pare, pressoché universale. Un rapido esame rivelerà che tale accettazione riposa su due principi. In primo luogo i nostri governanti l’hanno proclamata, quindi deve essere vera: un principio ben conosciuto in Corea del Nord e in altri modelli grandiosi. In secondo luogo dobbiamo rimuovere il fatto che, affermando questa dottrina dopo che altri pretesti erano venuti meno, i nostri governanti stanno anche dimostrando di essere tra i più grandi bugiardi della storia. Essi infatti, trascinando in guerra i loro paesi, hanno proclamato con altrettanta passione che «l’unica questione» era se Saddam avesse distrutto le armi. Ma ora dobbiamo credere a loro, e siamo anche obbligati a dimenticare tutti i «nobili sforzi» fatti per portare la democrazia, la giustizia e la libertà agli incivili.

È, ancora una volta, del tutto evidente che le dichiarazioni di nobili intenti dei nostri governanti non contengono informazioni, anche in senso tecnico: sono completamente prevedibili, comprese le peggiori mostruosità. Ma anche questa verità sbiadisce in confronto con il bisogno predominante di respingere il principio di universalità. La dottrina adottata dai commentatori occidentali è accettata anche da alcuni iracheni: secondo un sondaggio americano effettuato a Baghdad lo scorso ottobre – molto prima delle atrocità di aprile e delle rivelazioni sulle torture – l’1 per cento della popolazione ha detto di credere che l’obiettivo dell’invasione fosse portare la democrazia in Iraq. Un altro 5 per cento riteneva che l’obiettivo fosse aiutare l’Iraq. Gli altri davano quasi tutti per scontato che l’obiettivo fosse acquisire il controllo delle risorse irachene e usare l’Iraq come base per riorganizzare il Medio Oriente in funzione degli interessi statunitensi (13), un’idea virtualmente inesprimibile nei commenti degli occidentali illuminati, oppure liquidata con orrore in quanto «antiamericana», «teoria cospirativa», «radicale ed estremista». In breve, gli iracheni sembrano considerare quello attuale uno scenario familiare sin da quando gli inglesi crearono l’Iraq moderno. Tale creazione fu accompagnata da dichiarazioni di nobili intenti, prevedibili quanto insignificanti, ma anche da documenti riservati in cui Lord Curzon e il Foreign Office pianificavano la nascita di una «facciata araba», che la Gran Bretagna avrebbe governato nascondendosi dietro una serie di «finzioni costituzionali».

La versione contemporanea è offerta da un alto funzionario britannico citato sul Daily Telegraph: «II governo iracheno sarà pienamente sovrano, ma di fatto non eserciterà tutte le sue funzioni sovrane» (14). Torniamo a Negroporite e al principio di universalità. Mentre la sua nomina sbarcava al Congresso, il Wall Street Journal lo elogiava come un «moderno proconsole». Negroponte si è fatto le ossa in Honduras negli anni Ottanta, quando i personaggi attualmente in carica a Washington collaboravano con l’amministrazione Reagan. La corrispondente veterana del Journal, Carla Anne Robbins, ci ricorda che in Honduras Negroponte era conosciuto come il «proconsole» perché dirigeva la seconda più grande ambasciata in America Latina, con la più grande succursale della Cia al mondo -forse per trasferire la piena sovranità a questo centro nevralgico del potere mondiale (15). Robbins osserva che Negroponte è stato criticato dagli attivisti per i diritti umani per «avere tenuto nascosti gli abusi dei militari onduregni», un eufemismo per indicare un terrore di Stato su larga scala, «allo scopo di garantire il flusso di aiuti Usa» a questo paese di importanza vitale, che era «la base per la guerra nascosta di Washington al Nicaragua». Secondo quanto il comando militare, statunitense ha riferito al Congresso, il compito principale del proconsole Negroponte era la supervisione delle basi in cui l’esercito terroristico mercenario veniva armato, addestrato e spedito a compiere le sue missioni, tra le quali attaccare civili indifesi. Questa politica -attaccare i «soft targets» e non l’esercito nicaraguegno – è stata confermata dal Dipartimento di Stato e difesa dai principali intellettuali liberali (16) americani, in particolare dal direttore di New Republic Michael Kinsley, il portavoce designato dalla sinistra nei commenti televisivi. Costui ha criticato Human Rights Watch per il suo sentimentalismo nel condannare il terrorismo internazionale degli Usa e per non aver capito che esso deve essere valutato con «criteri pragmatici».

Una «politica ragionevole», ha detto, dovrebbe «superare il test dell’analisi costi-benefici», un’analisi «della quantità di sangue e di dolore che saranno necessari da una parte e, dall’altra, della probabilità che la democrazia riesca ad emergere». «Democrazia» come la intendono le élite statunitensi, cioè un loro diritto indiscutibile. Naturalmente, non vige il principio di universalità: gli altri non sono autorizzati a mettere a segno operazioni terroristiche internazionali su larga scala per realizzare i loro obiettivi. Nel caso del Nicaragua l’esperimento è stato un grande successo, ed è molto elogiato. Il Nicaragua è stato ridotto a secondo paese più povero dell’emisfero, e il 60 per cento dei bambini sotto i due anni sono afflitti da anemia per grave malnutrizione con probabili danni cerebrali permanenti (17). Durante la guerra terroristica, il paese ha registrato un numero di vittime che, fatte le debite proporzioni, equivale a due milioni e mezzo di morti negli Usa: un tributo di morte «significativamente più alto del numero di cittadini statunitensi uccisi nella guerra civile americana e in tutte le guerre del XX secolo messe insieme». Sono parole di Thomas Carothers, il principale storico della democratizzazione dell’America Latina, il quale scrive come protagonista oltre che come storico, avendo collaborato ai programmi di «incremento della democrazia» presso il Dipartimento di Stato durante l’amministrazione Reagan. Definendosi un «neo-reaganiano», Carothers giudica questi programmi «sinceri», anche se «un fallimento».

A suo parere, gli Usa potevano tollerare solo «forme di democrazia dall’alto» controllate dalle élite tradizionali, che avevano solidi legami con gli Stati Uniti stessi. Come proconsole in Honduras, il compito principale di Negroponte era fare da supervisore alle atrocità terroristiche internazionali per le quali gli Usa sono stati condannati dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja, in un giudizio che andava ben oltre il caso limitato del Nicaragua. Durante il dibattimento, la squadra dei legali di Harvard che rappresentavano gli Stati Uniti fece in modo che non si discutesse dei fatti, fatti che peraltro erano stati ammessi. La Corte ordinò a Washington di porre fine ai crimini e di pagare dei sostanziosi risarcimenti, ma tutto questo è stato ignorato con la motivazione ufficiale che le altre nazioni non sono d’accordo con noi, per cui noi dovremmo «riservarci il potere di stabilire» come agire, e quali materie rientrino «essenzialmente all’interno della giurisdizione nazionale degli Stati Uniti, come determinata dagli Stati Uniti»; in questo caso, le azioni condannate dalla Corte, come «l’uso illegale della forza» contro il Nicaragua. In parole povere, il terrorismo internazionale. I1 tutto è stato consegnato alla pattumiera della storia dalle classi colte al solito modo delle verità indesiderate, insieme alle due risoluzioni di sostegno del Consiglio di Sicurezza a cui gli Usa hanno opposto il veto, con la fedele astensione della Gran Bretagna. La campagna terroristica internazionale è stata citata di sfuggita durante l’approvazione della nomina di Negroponte.

Al Mit, appeso alla parete del mio ufficio, ho un dipinto che mi è stato regalato da un prete gesuita. Esso rappresenta l’Angelo della Morte che si erge sopra la figura dell’arcivescovo salvadoregno Romero, il cui assassinio nel 1980 aprì quel triste decennio di atrocità di Stato. Davanti a lui, i sei intellettuali più importanti dell’America Latina, i preti gesuiti la cui uccisione chiuse il decennio nel 1989. Gli intellettuali gesuiti, insieme alla governante e a sua figlia, furono uccisi da un battaglione scelto armato e addestrato da coloro che oggi governano a Washington, e dai loro mentori. Questo battaglione aveva già eseguito una serie di massacri nell’ambito della campagna terroristica internazionale condotta dagli Usa, definita dal successore di Romero «una guerra di sterminio e genocidio contro una popolazione civile indifesa». L’omicidio di Romero era stato opera, in larga parte, delle stesse persone. Pochi giorni prima, egli aveva chiesto al presidente Carter di non fornire aiuti militari alla giunta, aiuti che avrebbero «sicuramente fatto aumentare l’ingiustizia e inasprito la repressione scatenata contro le organizzazioni dei cittadini in lotta per difendere i loro diritti umani fondamentali». Dopo il suo omicidio, la repressione continuò con l’aiuto degli Usa, e gli attuali governanti l’hanno portata avanti fino a una «guerra di sterminio e genocidio». Tengo lì quel dipinto per ricordare a me stesso tutti i giorni il mondo reale, ma esso si è rivelato utile anche a un altro scopo. Molti visitatori passano dal mio ufficio. Quelli dell’America Latina riconoscono quasi sempre il contenuto del quadro, quelli provenienti dal nord del Rio Grande praticamente mai. Gli europei che lo riconoscono sono forse il 10 per cento. Potremmo prendere in considerazione un altro esperimento utile. Supponiamo che in Cecoslovacchia, negli anni Ottanta, le forze di sicurezza armate e addestrate dal Cremlino avessero assassinato un arcivescovo che era conosciuto come «la voce dei senza voce», supponiamo poi che avessero massacrato decine di migliaia di persone, concludendo il decennio con il brutale omicidio di Vàclav Havel e di una mezza dozzina di altri importanti intellettuali cechi. Lo sapremmo? Forse no, perché la «reazione occidentale sarebbe potuta giungere fino alla guerra nucleare, per cui non sarebbe rimasto nessuno a ricordarlo. Il criterio distintivo è, ancora una volta, chiaro come il cristallo. I crimini dei nemici avvengono; i nostri no, in virtù della nostra esenzione dal più elementare dei principi morali. In effetti, i gesuiti furono uccisi due volte: brutalmente assassinati, sconosciuti negli Stati illuminati. Un destino, il loro, particolarmente crudele. In Occidente solo gli specialisti o gli attivisti conoscono i loro nomi, e ancor meno sono quelli che hanno un’idea dei loro scritti. Il loro destino è alquanto diverso da quello degli intellettuali dissidenti nel reame dei nemici ufficiali, che sono famosi, ampiamente pubblicati e letti, omaggiati per la loro coraggiosa resistenza all’oppressione. Oppressione che è stata davvero dura, ma che non è confrontabile con ciò che hanno sopportato i loro omologhi, negli stessi anni, sotto il governo dell’Occidente.

Il ‘flagello del terrorismo’

Passiamo ad alcuni problemi spinosi. Forse nessun problema riceve oggi maggiore attenzione del «flagello del terrorismo» e, in particolare, del terrorismo internazionale appoggiato dagli Stati, un’«epidemia diffusa da persone depravate, nemiche della civiltà stessa» in un «ritorno alla barbarie in epoca moderna». Così è stata definita l’epidemia, quando è stata dichiarata la «guerra al terrore». Non nel settembre 2001. quando è stata ridichiarata., ma vent’anni prima, quando a dichiararla furono gli stessi personaggi e i loro mentori. La loro «guerra al terrore» si trasformò immediatamente in una guerra terrorista omicida, con conseguenze terribili in America Centrale, in Medio Oriente, nel Sud dell’Africa e in altre regioni, ma questa è semplicemente la storia, non la storia riscritta negli Stati illuminati dai suoi custodi. Nell’ambito di una storiografia più accettata, gli anni Ottanta sono descritti dagli studiosi come un decennio di «terrorismo di Stato», di «persistente coinvolgimento dello Stato, o “sponsorship”, del terrorismo, specialmente da parte della Libia e dell’Iran». Gli Usa avrebbero meramente risposto con «un atteggiamento “attivo” nei confronti del terrorismo» (18), e lo stesso varrebbe per i loro alleati: Israele, il Sudafrica, la rete terroristica clandestina messa insieme dai reaganiani comprendente i neo-nazisti argentini, Taiwan, la Gran Bretagna e altri. Lascerò da parte gli islamisti radicali organizzati e addestrati per la causa – non per difendere l’Afghanistan, obiettivo che sarebbe stato legittimo, ma per insanguinare il nemico ufficiale, probabilmente prolungando la guerra afghana e lasciando il paese in rovine con la prospettiva di una situazione in via di peggioramento con l’arrivo degli occidentali, con conseguenze che non c’è nemmeno bisogno di nominare.

Dalla storia «accettabile» sono scomparsi i milioni di vittime della vera «guerra al terrore» degli anni Ottanta, e quanti hanno cercato di sopravvivere in ciò che restava delle loro terre devastate. Fuori della storia è anche la residuale «cultura del terrore», che «addomestica le aspirazioni della maggioranza», per citare i sopravvissuti della comunità intellettuale gesuita di El Salvador, in una conferenza dedicata alla storia vera ma «inaccettabile». Il terrorismo pone una serie di problemi spinosi. Prima di tutto, naturalmente, c’è il fenomeno stesso, che rappresenta davvero una minaccia, anche se ci atteniamo alla sottoparte che passa attraverso i filtri dottrinali: il loro terrorismo contro di noi. Secondo le analisi prodotte nella letteratura specializzata molto prima delle atrocità dell’11 settembre, è solo una questione di tempo prima che il terrorismo e le armi di distruzione di massa si uniscano, con conseguenze forse terrificanti. Ma a prescindere dal fenomeno, c’è il problema di come definiamo il «terrorismo». Anche questo è considerato un problema complesso, ed è oggetto di studio in ambito accademico e in conferenze internazionali.

A prima vista, potrebbe sembrare strano vederlo come un problema complesso. Alcune definizioni possono apparire soddisfacenti: non perfette, ma buone tanto quanto altre considerate poco problematiche, come ad esempio le definizioni ufficiali nel codice americano e nei manuali dell’esercito, all’inizio degli anni Ottanta, quando la «guerra al terrore» fu lanciata, o la formulazione ufficiale, piuttosto simile, del governo britannico, che definisce il «terrorismo» come «l’uso, o la minaccia, di azione violenta, tale da provocare danni o turbative, mirante a influenzare il governo o a intimidire la popolazione con l’intento di promuovere una causa politica, religiosa o ideologica». Queste sono le definizioni che ho usato scrivendo sul terrorismo negli ultimi vent’anni, da quando l’amministrazione Reagan dichiarò che la guerra al terrore sarebbe stata un obiettivo primario della sua politica estera e che avrebbe preso il posto dei diritti umani, strombazzati fino ad allora come «l’anima della nostra politica estera» (19). A uno sguardo più ravvicinato però il problema diventa evidente, ed è davvero complesso. Le definizioni ufficiali sono inutilizzabili per le loro conseguenze immediate. Una difficoltà consiste nel fatto che la definizione di terrorismo è praticamente uguale alla definizione della politica ufficiale degli Usa e di altri Stati, sia essa chiamata «contro-terrorismo» o «guerra a bassa intensità», o definita con qualche altro eufemismo. Per quanto ne so, questo, ancora una volta, è vicino a un universale storico. Gli imperialisti giapponesi in Manciuria e nel Nord della Cina, ad esempio, non erano aggressori o terroristi, ma proteggevano la popolazione e i governi legittimi dal terrorismo dei «banditi cinesi». Per assolvere questo nobile compito, furono costretti a ricorrere al «controterrore» con l’obiettivo di creare un «paradiso sulla terra» in cui i popoli dell’Asia potessero vivere in pace e armonia sotto la guida illuminata del Giappone. Lo stesso è vero all’incirca per tutti gli altri casi che ho analizzato.

Ma ora ci troviamo davanti a un grosso problema: non basterà dire che gli Stati illuminati sono ufficialmente dediti al terrorismo. E bastano pochi sforzi, per dimostrare in modo incontrovertibile che gli Usa hanno praticato il terrorismo internazionale su larga scala – secondo la loro stessa definizione del termine – in una serie di casi cruciali. Questo comporta dei problemi. Alcuni di essi sorsero quando l’Assemblea Generale dell’Onu, in risposta alle pressioni dei reaganiani, nel dicembre 1987 approvò la sua più forte condanna del terrorismo, invitando tutti gli Stati a distruggere questa piaga dell’epoca moderna. La risoluzione passò per 153 voti a 2, e solo l’Honduras si astenne. I due Stati che si erano opposti alla risoluzione spiegarono le loro ragioni nel dibattito all’Onu. Essi obiettavano a un passaggio che riconosceva «il diritto all’autodeterminazione, alla libertà e all’indipendenza, così come derivanti dalla Carta delle Nazioni Unite, dei popoli privati con la forza di tale diritto, […] in modo particolare, dei popoli sottoposti a regimi coloniali e razzisti e all’occupazione straniera». L’espressione «regimi coloniali e razzisti» era stata interpretata come un riferimento al Sudafrica, un alleato degli Stati Uniti che resisteva agli attacchi dell’African National Congress di Nelson Mandela; uno dei «più noti gruppi terroristici» del mondo, come Washington aveva stabilito in quel periodo. E l’ «occupazione straniera» era stata interpretata come un riferimento al cliente israeliano di Washington. Così, la cosa non sorprende, gli Usa e Israele votarono contro la risoluzione, a cui fu dunque opposto con successo il veto. Nei fatti, essa fu soggetta al solito doppio veto: era inapplicabile e fu anche sottratta all’informazione e alla storia, sebbene si trattasse della più forte e più importante risoluzione Onu sul terrorismo. Dunque, la definizione di «terrorismo» è piuttosto problematica, così come è problematica la definizione del «crimine di guerra». Come possiamo definirlo in modo da violare il principio di universalità, un modo che dia a noi l’impunità e si applichi ad alcuni nemici ben precisi? Questi ultimi poi, vanno scelti con una certa precisione. Sin dall’epoca di Reagan, gli Usa hanno una lista ufficiale degli Stati che appoggiano il terrorismo. Tn tutti questi anni, solo uno Stato è stato rimosso dalla lista: l’Iraq. In questo modo gli Usa, insieme al Regno Unito e ad altri paesi, furono in grado di fornire a Saddam Hussein gli aiuti di cui egli aveva assolutamente bisogno, e continuarono a farlo tranquillamente anche dopo che Saddam ebbe commesso i suoi crimini più orrendi. C’è stato anche un caso recente. Clinton ha offerto alla Siria di toglierla dalla lista, se questa avesse accettato i termini della pace proposti da Usa e Israele. Ma avendo insistito nel voler rientrare in possesso del territorio che Israele aveva conquistato nel 1967, la Siria è rimasta nella lista degli Stati che appoggiano il terrorismo, e continua a farne parte nonostante Washington abbia riconosciuto che questo paese non sostiene il terrorismo da molti anni e ha fornito importanti informazioni di intelligence agli Usa su al-Qaida e altri gruppi islamisti radicali.

Per ricompensare la Siria del suo aiuto nella «guerra al terrore», lo scorso dicembre il Congresso ha approvato quasi all’unanimità una legge che chiede l’inasprimento delle sanzioni contro di essa (Syria Accountability Act). La legge è stata recentemente implementata dal presidente, che ha così privato gli Usa di una importante fonte di informazione sul terrorismo islamico radicale allo scopo di raggiungere un obiettivo più alto: insediare in Siria un regime che accetti le richieste degli Usa e di Israele. Il Syria Accountability Act offre anche un altro esempio eclatante del rifiuto del principio di universalità. Esso fa riferimento alla risoluzione 520 del Consiglio di Sicurezza dell’Orni, che chiede il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale del Libano. Queste ultime sono violate dalla Siria, che mantiene ancora in Libano dei soldati che erano stati ben accetti lì da Usa e Israele nel 1976, quando il loro compito era massacrare i palestinesi. La legislazione del Congresso, e notizie e commenti di tipo giornalistico, sorvolano sul fatto che la Risoluzione 520, approvata nel 1982, era diretta esplicitamente contro Israele, non contro la Siria, e sorvolano anche sul fatto che contro Israele non è stata richiesta alcuna sanzione, né è stata chiesta alcuna riduzione degli imponenti aiuti militari ed economici incondizionati che riceve, sebbene Israele violi questa ed altre risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sul Libano da 22 anni.

Il silenzio durato 22 anni riguarda molti di coloro che ora hanno firmato la legge che condanna la Siria per la sua violazione della risoluzione del Consiglio di Sicurezza, risoluzione che ordinava a Israele di lasciare il Libano. 11 principio è accuratamente formulato da un accademico, Steven Zunes: «La sovranità libanese deve essere difesa solo se l’esercito occupante è di un paese a cui gli Usa si oppongono, ma è perdonabile se il paese è un alleato degli Stati Uniti» (20). Il principio, e le notizie e i commenti di tipo giornalistico su tutti questi eventi, ancora una volta si spiegano con l’esigenza predominante di respingere elementari truismi morali, una dottrina fondamentale della cultura intellettuale e morale. Torniamo all’Iraq. Quando Saddam fu rimosso dalla lista degli Stati che sostengono il terrorismo, al suo posto fu inserita Cuba, forse un modo di riconoscere la forte escalation degli attentati terroristici ai danni di Cuba avvenuti verso la fine degli anni Settanta, tra i quali l’attentato a un aereo di linea della Cubana in cui restarono uccise 73 persone. Questi attentati furono progettati e organizzati soprattutto negli Usa, anche se a quell’epoca Washington aveva abbandonato la sua politica precedente di azioni dirette, volte a scagliare contro Cuba «i terrori della terra»: un obiettivo dell’amministrazione Kennedy ricostruito dagli storici e da Arthur Schlesinger, consigliere di Kennedy, nella sua biografia di Robert Kennedy. La responsabilità della campagna di terrore fu del presidente Kennedy, che la considerava una priorità assoluta. Verso la fine degli anni Settanta, Washington condannò ufficialmente le azioni terroristiche, ma intanto ospitava e proteggeva le cellule terrori stiche sul suolo americano in violazione della legge degli Stati Uniti. Il principale terrorista, Orlando Bosch, ritenuto dall’Fbi l’autore dell’attentato alla compagnia aerea Cubana e di altre dozzine di attentati, ricevette la grazia da George Bush padre nonostante le forti obiezioni del dipartimento della Giustizia. Altri come lui continuano ad operare impunemente sul suolo americano, compresi i terroristi responsabili di grossi crimini avvenuti altrove, e per i quali gli Usa rifiutano l’estradizione (ad Haiti, ad esempio).

La ‘dottrina Bush’

Potremmo ricordare una delle principali componenti della «dottrina Bush», oggi Bush numero due: «Coloro che danno asilo ai terroristi sono responsabili tanto quanto i terroristi stessi» e devono essere trattati di conseguenza. Le parole del presidente hanno annunciato il bombardamento dell’Afghanistan per il suo rifiuto di consegnare agli Usa i sospetti terroristi in assenza di prove o di un pretesto credibile, cosa che in seguito è stata concessa senza sollevare troppo rumore. Lo specialista di relazioni internazionali dell’Università di Harvard, Graham Allison, ritiene che questa sia una delle componenti più importanti della «dottrina Bush». Essa «revocava unilateralmente la sovranità degli Stati che offrono asilo ai terroristi», ha scritto in tono di approvazione su Foreign Affairs, aggiungendo che la dottrina è «già diventata una norma di fatto nelle relazioni internazionali». Qualche settimana fa il leader palestinese Abu Abbas è morto in una prigione americana in Iraq. La sua cattura era stata uno dei successi più strombazzati dell’invasione. Alcuni anni fa Abbas viveva a Gaza e aveva partecipato al «processo di pace» di Oslo con l’approvazione degli Usa e di Israele ma, dopo l’inizio della seconda Intifada, era fuggito a Baghdad, dove è stato poi arrestato dall’esercito americano per il suo ruolo nel dirottamento della nave da crociera Achille Lauro nel 1985. L’anno 1985 è considerato dagli studiosi l’anno che ha segnato il picco del terrorismo degli anni Ottanta. Secondo un sondaggio effettuato presso i direttori di testate giornalistiche, il terrorismo mediorientale era stato la notizia dell’anno.

Gli studiosi identificano due crimini principali avvenuti in quell’anno: il dirottamento dell’Achille Lauro, in cui un americano disabile fu brutalmente assassinato; e un dirottamento aereo con un morto, anch’egli americano. In realtà, nel 1985 in quella regione si verificarono anche altre azioni terroristiche, ma di questo non si parla. Una di esse fu l’esplosione di un’autobomba davanti a una moschea di Beirut. L’autobomba, che uccise 80 persone e ne ferì altre 250, era stata programmata per esplodere mentre le persone uscivano dalla moschea. Tra i morti vi furono soprattutto donne e bambine, ma di questo attentato nessuno si ricorda perché è riconducibile alla Cia e all’intelligence britannica. Un’altra azione terroristica fu quella che determinò, per ritorsione, il dirottamento dell’Achille Lauro dopo una settimana: il bombardamento di Tunisi, compiuto da Shimon Peres senza un pretesto credibile, che uccise 75 persone, palestinesi e tunisine. Esso era stato sollecitato dagli Usa e fu elogiato dal segretario di Stato Shultz, salvo poi essere condannato unanimemente dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu come «atto di aggressione armata» (gli Usa si astennero). Ma anche questo evento non rientra negli annali del terrorismo (o forse del crimine, più grave, di «aggressione armata») e ciò dipende da chi ne furono gli autori. Peres e Shultz non muoiono in carcere, ma ricevono il premio Nobel, grandi doni dei contribuenti per la ricostruzione di ciò che essi hanno contribuito a distruggere nell’Iraq occupato, e altri onori. A volte la negazione di tali principi è esplicita. Ne è un esempio la reazione alla seconda più importante componente della «dottrina Bush», enunciata formalmente nel documento National Security Strategy del settembre 2002. Questo documento è stato definito nella rivista più importante dell’establishment, Foreign Affairs, una «nuova grande strategia imperiale» che afferma il diritto di Washington a ricorrere alla forza per eliminare qualunque minaccia potenziale alla sua dominance globale. Esso è stato ampiamente criticato all’interno dei circoli della politica estera, ed anche nell’articolo appena citato, ma con argomentazioni limitate: non perché sbagliato o nuovo, ma perché lo stile e l’applicazione concreta sarebbero cosi estremi da mettere a rischio gli interessi americani.

Henry Kissinger ha definito il nuovo approccio «rivoluzionario», osservando che esso mina il sistema di ordine internazionale westfaliano del XVII secolo, e naturalmente la Carta delle Nazioni Unite e il diritto internazionale. Egli ha detto di approvare la dottrina, ma con alcune riserve circa lo stile e la tattica, e con una specificazione cruciale: non può essere «un principio universale alla portata di tutte le nazioni». Piuttosto, il diritto di aggressione deve essere riservato agli Usa, e forse delegato a Stati clienti selezionati. Dobbiamo perciò rigettare con forza il più elementare dei principi morali: il principio di universalità. È apprezzabile la franchezza di Kissinger circa la dottrina dominante, solitamente nascosta dietro dichiarazioni di intenti virtuosi e tortuosi legalismi.

La ‘guerra giusta’

Vorrei aggiungere un ultimo esempio, che ritengo molto tempestivo e significativo. Consideriamo la «teoria della guerra giusta», che oggi è in pieno revival nell’ambito della «rivoluzione normativa» proclamata negli anni Novanta. Si è discusso se l’invasione dell’Iraq soddisfi le condizioni delle guerra giusta, ma non si è detto praticamente niente circa il bombardamento della Serbia nel 1999 o l’invasione dell’Afghanistan. Questi casi sono considerati talmente chiari da rendere superflua ogni discussione. Analizziamoli velocemente, non chiedendoci se gli attacchi fossero giusti o sbagliati, ma considerando la natura delle argomentazioni. La critica più forte al bombardamento della Serbia che si avvicini all’opinione pubblica dominante è che fosse «illegale ma legittimo». È questa la conclusione della International Independent Commission of Inquiry, presieduta dal giudice Richard Goldstone. Il bombardamento «è stato illegale perché non aveva ricevuto l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’Orni», ha stabilito la Commissione, «ma era legittimo perché tutte le vie diplomatiche erano state esaurite e non c’era altro modo di fermare le uccisioni e le atrocità in Kosovo» (21). Il giudice Goldstone ha osservato che la Carta potrebbe necessitare di una revisione alla luce del rapporto e dei giudizi su cui si basa.

L’intervento della Nato, egli spiega, «è un precedente troppo importante» per essere considerato «una aberrazione». Piuttosto, «la sovranità dello Stato viene ad essere ridefinita alla luce della globalizzazione e della determinazione della maggioranza dei popoli del mondo, per i quali i diritti umani sono diventati un affare della comunità internazionale». Egli ha anche sottolineato la necessità di un’«analisi oggettiva del mancato rispetto dei diritti umani» (22). L’ultima osservazione è un buon consiglio. Una domanda che si potrebbe porre con un’analisi oggettiva è se la maggioranza dei popoli del mondo accetti davvero il giudizio degli Stati illuminati. Nel caso del bombardamento della Serbia, una disamina della stampa mondiale e delle dichiarazioni ufficiali non conferma questa conclusione. Il bombardamento è stato aspramente condannato al di fuori dei paesi Nato, ma questa condanna è stata regolarmente ignorata (23). Inoltre, è assai poco verosimile che l’autoesenzione, in linea di principio, degli Stati illuminati dalla «universalizzazione» risalente a Norimberga otterrebbe l’approvazione di gran parte della popolazione mondiale.

Un’altra domanda che si potrebbe porre con un’analisi oggettiva è se davvero fossero state esaurite «tutte le opzioni diplomatiche». Questa tesi non è facilmente sostenibile dato che, quando la Nato decise di bombardare, c’erano due opzioni sul tavolo – la proposta della Nato e la proposta serba – e dopo 78 giorni di bombardamenti fu raggiunto un compromesso tra le due parti (24). Una terza domanda è se sia vero che «non c’era altro modo di fermare le uccisioni e le atrocità in Kosovo», evidentemente una questione cruciale. In questo caso, l’analisi oggettiva è insolitamente facile. Esiste una vasta documentazione derivante da fonti occidentali impeccabili: svariate compilazioni del Dipartimento di Stato diffuse a giustificazione della guerra, documenti dettagliati dell’Osce, della Nato, dell’Onu, dell’Inchiesta parlamentare britannica, e di altre fonti analoghe. La documentazione, insolitamente ricca, presenta molti aspetti degni di nota. Il primo è che è quasi interamente ignorata nell’ampia letteratura sulla guerra del Kosovo, compresa quella accademica (25). Il secondo è che i suoi importanti contenuti non sono soltanto ignorati, ma anche pesantemente negati. Ho esaminato la documentazione in altra sede e non lo farò qui, ma ciò che emerge è che la cronologia, chiara ed esplicita, viene rovesciata. Le atrocità serbe sono raffigurate come la causa del bombardamento, mentre è incontrovertibile che avvennero dopo di esso, praticamente senza eccezione, e furono per di più la sua conseguenza prevista, come è ben documentato anche dalle più alte fonti Nato. Secondo una stima del governo britannico, cioè l’elemento più «falco» dell’alleanza, gran parte delle atrocità furono dovute non alle forze di sicurezza serbe ma alle forze guerrigliere dell’Uck [Esercito di liberazione del Kosovo] che attaccarono la Serbia dall’Albania con l’intento, come esse stesse hanno spiegato, di suscitare una reazione sproporzionata da parte dei serbi: una reazione che potesse essere usata per favorire il sostegno occidentale ai bombardamenti. La valutazione del governo britannico risaliva a metà gennaio, ma dai documenti non risultano cambiamenti sostanziali fino agli ultimi giorni di marzo, quando il bombardamento fu annunciato ed ebbe inizio. L’incriminazione di Milosevic, basata su notizie di intelligence degli Usa e del Regno Unito, rivela lo stesso schema di eventi. Gli Usa e il Regno Unito, e i commentatori in generale, citano il massacro di Racak avvenuto a metà gennaio come il punto di svolta decisivo, ma questa tesi evidentemente non può essere presa sul serio. Il massacro di Racak modificò scarsamente la bilancia delle atrocità. Nello stesso momento, massacri ben peggiori stavano avvenendo altrove, ma nessuno se ne preoccupò anche se sarebbe stato possibile porre fine ad alcuni dei peggiori di essi, semplicemente ritirando l’appoggio ai loro autori.

Un caso eclatante, all’inizio del 1999, è quello di Timor Est sotto l’occupazione militare indonesiana. Gli Usa e il Regno Unito hanno continuato a fornire il loro sostegno militare e diplomatico agli occupanti, che avevano già massacrato forse un quarto della popolazione con l’appoggio continuato e decisivo degli anglo-americani. Tale appoggio proseguì anche dopo che l’esercito indonesiano aveva praticamente distrutto il paese, in un parossismo finale di violenza, nell’agosto-settembre 1999.

In Kosovo, secondo stime occidentali, nell’anno precedente l’invasione furono uccise circa 2000 persone. Se la valutazione della Gran Bretagna ed altre valutazioni sono accurate, gran parte di esse furono uccise dai guerriglieri dell’Uck. Uno dei pochissimi studi accademici che abbiano preso seriamente in considerazione l’argomento stima che 500 persone di quelle 2000 furono uccise dai serbi. Uo studio, attento e prudente, è di Nicholas Wheeler, il quale sostiene il bombardamento della Nato perché ritiene che ci sarebbero state atrocità peggiori se la Nato non avesse bombardato (26). Il ragionamento è che, bombardando e sapendo che questo avrebbe portato ad atrocità, la Nato stava impedendo le atrocità. Forse, sostengono in molti, una seconda Auschwitz. Che tali argomentazioni siano prese tanto sul serio, da un’idea non piccola della cultura intellettuale occidentale, in modo particolare se ricordiamo che c’erano opzioni diplomatiche e che l’accordo raggiunto dopo il bombardamento fu (almeno formalmente) un compromesso tra di esse. Anche il giudice Goldstone sembra nutrire riserve su questa questione. Egli riconosce – cosa che pochi fanno – che il bombardamento della Nato non fu intrapreso per proteggere la popolazione albanese in Kosovo, e che il suo «risultato diretto» fu una «tremenda catastrofe» per i kosovari – come era stato previsto dal comando Nato e dal Dipartimento di Stato – seguita a sua volta da un’altra catastrofe, in particolare per i serbi e i rom, sotto l’occupazione Nato-Onu. I commentatori e i sostenitori della Nato, continua il giudice Goldstone, «hanno dovuto consolarsi con la convinzione che l’operazione Ferro di cavallo (il piano serbo di pulizia etnica ai danni degli albanesi del Kosovo) fosse stata avviata prima che cominciasse il bombardamento, e non in conseguenza di esso». La parola «convinzione» è appropriata: non ci sono prove nella documentazione occidentale di qualunque cosa che sia stata avviata prima che gli osservatori internazionali venissero ritirati in preparazione del bombardamento, e molto poco nei pochi giorni intercorsi prima che esso iniziasse. L’operazione Ferro di cavallo è stata poi smascherata come un’invenzione dell’intelligence, anche se è difficile mettere in dubbio che la Serbia avesse dei piani d’emergenza, attualmente sconosciuti, per rispondere all’attacco Nato.

E’ difficile, allora, capire in che modo possiamo accettare le conclusioni della Commissione internazionale, uno sforzo serio e misurato di affrontale le questioni concernenti la legittimità del bombardamento. I fatti non sono affatto controversi, come può stabilire chiunque sia interessato all’argomento. Suppongo che sia questo il motivo per cui l’abbondante documentazione occidentale è così sistematicamente ignorata. Qualunque sia il giudizio che si vuole dare del bombardamento, che qui non è in questione, la conclusione che esso sia stato un esempio incontrovertibile di guerra giusta e la dimostrazione decisiva della «rivoluzione normativa» condotta dagli «Stati illuminati» è, quantomeno, piuttosto sorprendente – a meno che, naturalmente, non torniamo allo stesso principio: i truismi morali devono essere dati alle fiamme, quando si applicano a noi.

Torniamo al secondo caso, la guerra in Afghanistan, considerata un esempio tanta paradigmatico di guerra giusta che quasi non se ne discute nemmeno. La stimata filosofa morale e politica Jean Bethke Elshtain scrive che solo i pacifisti assoluti e i pazzi dubitano che questa sia stata incontestabilmente una guerra giusta. Qui, ancora una volta, sorgono alcune domande circa i fatti. Prima di tutto, si pensi agli scopi della guerra: punire gli afghani finché i talebani non avessero accettato di consegnare Osarna bin Laden, senza prove della sua colpevolezza. Contrariamente a quanto sostenuto successivamente, rovesciare il regime dei talebani fu un ripensamento, intervenuto dopo parecchie settimane di bombardamenti. In secondo luogo, l’idea secondo cui solo i pazzi o i pacifisti assoluti non si sarebbero uniti al coro di approvazione è contraddetta da elementi concreti. Un sondaggio internazionale condotto dalla Gallup dopo che il bombardamento era stato annunciato, ma prima del suo inizio, rivelò che esso godeva di un consenso molto limitato, quasi inesistente se fossero stati colpiti i civili, come poi avvenne fin dal primo momento. E anche quel limitato consenso riposava sulla convinzione che, relativamente agli attacchi dell’11 settembre, fosse stata accertata la responsabilità degli obiettivi da colpire. Non era così. Otto mesi più tardi, il capo dell Fbi testimoniò al Senato che dopo la più imponente indagine internazionale di intelligence della storia, il massimo che si potesse affermare era che «si credeva» che il progetto fosse stato architettato in Afghanistan, ma che gli attacchi fossero stati programmati e finanziati altrove. Ne consegue che non era riscontrabile un consenso popolare al bombardamento, contrariamente a quanto in genere si sostiene con sicurezza, fatta eccezione per pochi paesi e, naturalmente, le élite occidentali. L’opinione degli afghani è più difficile da appurare, ma sappiamo che dopo molte settimane di bombardamenti, alcuni leader antitalebani tra i più rispettati dagli Stati Uniti, e lo stesso Karzai, presero posizione contro i bombardamenti. Essi chiesero la loro Cassazione e accusarono gli Usa di bombardare solo per «mostrare i muscoli», mettendo così a repentaglio il loro tentativo di rovesciare i talebani dall’interno.

Ci sono poi gli interrogativi riguardanti la guerra giusta. Di colpo, si pone la questione dell’universalità. Se gli Stati Uniti possono bombardare a proprio piacimento un altro paese per costringere i suoi governanti a consegnare un sospetto terrorista, allora, a maggior ragione, Cuba, il Nicaragua e una serie di altri paesi dovrebbero avere il diritto di bombardare gli Stati Uniti, perché il coinvolgimento Usa in azioni terroristiche molto gravi ai loro danni è indubbio. Nel caso di Cuba l’episodio, avvenuto 45 anni fa, è ampiamente documentato grazie a fonti ineccepibili. Nel caso del Nicaragua, gli Usa sono stati anche condannati dalla Corte internazionale di giustizia e dal Consiglio di Sicurezza (in risoluzioni a cui è stato posto il veto), dopo di che hanno intensificato l’attacco. Se accettiamo il principio di universalità, arriviamo a questa conclusione logica. Essa naturalmente è assolutamente pazzesca, e nessuno la auspica. La guerra all’Iraq è stata più controversa, perciò esiste un’ampia letteratura in cui si discute se essa soddisfi i criteri del diritto internazionale e della guerra giusta. Uno studioso molto accreditato, Michael Glennon della Fletcher School of Law and Diplomacy, afferma senza giri di parole che il diritto internazionale è semplice «aria calda» e dovrebbe essere abbandonato, perché la prassi degli Stati non si conforma ad esso. In altre parole, gli Usa e i suoi alleati lo ignorano. Un ulteriore difetto del diritto internazionale e della Carta dell’Onu, egli sostiene, è che questi limitano la capacità degli Stati Uniti di ricorrere alla forza. Secondo Glennon, il ricorso alla forza è cosa buona e giusta perché gli Usa guidano gli «Stati illuminati», a quanto pare per definizione: egli non fornisce alcuna prova o argomentazione, né sembra sentirne il bisogno. Un altro affermato studioso sostiene che gli Usa e il Regno Unito avrebbero agito rispettando di fatto la Carta dell’Onu, in base a una «interpretazione comunitaria» di quanto essa prevede. Questi due paesi cioè avrebbero dato attuazione alla volontà della comunità internazionale, in una missione alla quale sarebbero stati implicitamente delegati perché essi soli avevano il potere di attuarla (27). A quanto pare, è irrilevante che la comunità internazionale abbia protestato a gran voce, in una misura che non ha precedenti.

Altri osservano infine che il diritto è uno strumento vivo, il cui significato è determinato dalla prassi, e la prassi dimostra che sono state stabilite nuove norme che permettono «l’autodifesa preventiva», un eufemismo per indicare l’aggressione a proprio piacimento. Il tacito assunto è che le norme siano stabilite dai potenti, e che essi soli abbiano il diritto all’autodifesa preventiva. Ad esempio, nessuno sosterrebbe che il Giappone stesse esercitando tale diritto quando bombardò le basi militari nelle colonie americane nelle Hawaii e nelle Filippine. Eppure i giapponesi sapevano molto bene che le Fortezze Volanti B-17 erano prodotte dalla Boeing, ed erano certamente a conoscenza di come, negli Stati Uniti, si dicesse pubblicamente che esse potevano essere usate per incenerire le città di legno del Giappone in una guerra di sterminio, decollando proprio dalle basi aeree delle Hawaii e delle Filippine (28). Nessuno, oggi, accorderebbe tale diritto a uno Stato, a parte gli autodichiaratisi Stati illuminati, che hanno il potere di fissare le norme e di applicarle selettivamente a proprio piacimento, beandosi degli elogi per la loro nobiltà, generosità, e visioni messianiche di rettitudine. Non c’è niente di particolarmente nuovo in tutto questo, se non un aspetto. I mezzi di distruzione esistenti sono ormai così terrificanti, e così enormi sono i rischi legati al loro dispiego e utilizzo, che un marziano, osservandoci razionalmente, non giudicherebbe molto alte le probabilità di sopravvivenza di questa nostra curiosa specie, almeno finché le élite istruite mostreranno di disprezzare così profondamente i più elementari principi morali.

 

(1) Per le fonti, vedi le mie opere New Military Humanism (Common Courage. 1999), A New Generation Draws the Line (Verso, 2000), e Hegemony or Survival (Metropolitan, 2003, versione aggiornata 2004). Qui mi limiterò a citazioni non facili da reperire in opere standard, o in miei libri recenti, compresi questi.

(2) E. Becker, «Kissinger Tapes Describe Crises, War and Stark Photos of Abuse», New York Times, 27-5-2004.

(3) T. Taylor, Nuremberg and Vietnam: An American Tragedy, Times Books. 1970.

(4) E. Alden, «Us INTERROGATION DEBATE: Dismay at attempt to find legal justification for torture», Financial Times, 10-6-2004.

(5) R. Goldstone, «Kosovo: An Assessment in the Context of International Law», Nine-teenth Morgeiithau Memorial Lecture, Carnegie Council on Ethics and International Affairs, 2000.

(6) M. Georgy, «Iraqis want Saddam’s old U.S. friends on trial». Reuters, 20-1-2004.

(7) Su questa ed altre operazioni, basate in parte su indagini non pubblicate di Kevin Buckley, responsabile della redazione di Saigon di Newsweek, si veda N. Chomsky ed E. Herman, The Politicai Ecoriomy of Human Rights, voi. 1/1979, South End.

(8) A. Regolar, Ha’aretz, 24-5-2003, basato sui verbali di un incontro tra Bush e il primo ministro palestinese di suo gradimento, Mahmoud Abbas, forniti da Abbas. Vedi anche Newsweek, «Bush and God», 10-3-2003, con un servizio sulle credenze e sulla linea diretta con Dio dell’uomo che ha il dito sul pulsante. Vedi anche The Jesus Factor, un documentario prodotto per la serie Frontline della Pbs , sugli «ideali religiosi» che Bush ha portato alla Casa Bianca, «inerenti alla missione messianica di Bush di trapiantare la democrazia nel resto del mondo»; S. Allis, «A timely look al how faith informs Bush presidency», Boston Globe, 29-2-2004. Gli assistenti alla Casa Bianca esprimono preoccupazione per il «comportamento sempre più incostante di Bush», che «dichiara che le sue decisioni sarebbero “la volontà di Dio”»: Doug Thompson, Capitol Hill Blue, 4-6-2004.

(9) G. Wood, «”Freedom Just Around the Corner”: Rogue Nation». New York Times Book Review, 28-3-2004; Th. Bailey, A Diplomatic History of the American People, Appleton-Century-Crofts, 1969.

(10) Gli storici Th. Pakenham e D. Edwards, citati da C. Langley, «The Religious Roots of American Imperialism», Global Dialogue., inverno-primavera 2003.

(11) Citato da P.F. Asso, «The “Home Bias” Approach in the History of Economie Thought». in J. Lorentzen e M. de Cecco (a cura di), Markets and Authorities, Elgar, UK, 2002.

(12) «Another intifada in the making», «Bloodier and sadder», Economist, 17-4 2004.

(13) W. Pincus, «Skepticism About U.S. Deep, Iraq Poli Shows, Motive for Invasion Is Focus of Doubts», Washington Post, 12-11-2003. R. Burkholder. «Gallup Poll of Baghdad: Gauging U.S. Intent», Goveminent & Public Affairs, 28-10-003.

(14) A. La Guardia. «Handover still on course as UN waits for new leader to emerge», Daily Telegraph, 18-5-2004.

(15) C.A. Robbins, «Negroponte Has Tricky Mission: Modem Proconsul», WSJ, 27-4-2004.

(16) In tutto il volume, salvo rari casi, abbiamo deciso di «esportare» il duplice significato che i termini «liberal» e «radical» hanno per un lettore anglofono, traducendoli in italiano. Com’è noto, tuttavia, per ragioni storiche il termine inglese «liberal» non è l’esatto equivalente dell’italiano «liberale», ma significa politicamente qualcosa di genericamente vicino ad un atteggiamento progressista, di «centro-sinistra»; in altri casi invece, a seconda del contesto, il suo significato si riferisce alla tradizione liberale europea. Una considerazione analoga vale per «radical», che per gli anglofoni politicamente designa una posizione a sinistra di «liberal» (e non certo «radicale nel significato che il termine ha assunto nella politica italiana), ma che può anche inescare una posizione «estremista» (musulmani radicali, ambientalisti radicali). Al lettore attribuire di volta in volta, a seconda del contesto, il corretto significato (n.d.r.).

(17) Envio, UCA, Jesuit University, Managua, novembre 2003.

(18) M. Crenshaw, Current History, America at War, dicembre 2001.

(19) Vedi, tra gli altri, il mio Pirates and Emperors (1996; edizione aggiornata, South End-Pluto, 2002). Per un’analisi della prima fase della «guerra al terrore», vedi A. George (a cura di), Western State Terrorism, Polity/Blackwell, 1991.

(20) S. Zunes, «U.S. Policy Towards Syria and thè Triumph of Neoconservatism». Middle East Policy, primavera 2004.

(21) The Independent Internatiorial Commission on Kosovo, «The Kosovo Report»,23-10-2000, http://www.pahnecenler.se/print_uk.asp?Article._Id=873, Oxford University Press, 2000.

(22) R. Goldstone, op. cit.

(23) Per una disamina vedi New Military Humanism.

(24) Per maggiori dettagli, vedi il mio A New Generation Draws the Line (Verso, 2000), che esamina anche come la Nato immediatamente ha capovolto la risoluzione del Consiglio di Sicurezza che aveva inizialmente proposto. R. Goldstone, op.cit.., riconosce che la risoluzione fu un compromesso, ma non entra nella questione, che non sollevò interesse in Occidente.

(25) Le uniche analisi dettagliate di cui sono a conoscenza si trovano nei miei libri citati nelle due note precedenti, con alcune aggiunte tratte dall’ultima inchiesta parlamentare britannica in Hegemony or Suruival.

(26) N. Wheeler. Saving Strangers: Humanitarian Intervention and International Society, Oxford 2000.

(27) C. Stahn. «Enforcement of die Collective Will after Iraq», American J. of International Law, Symposium, «Future Implications of the Iraq Conflict», 97/2003, pp. 804-823. Per ulteriori approfondimenti su queste questioni, comprese le idee influenti di Glennon e il suo rifiuto di altri truismi etici, vedi il mio articolo e molti altri in Review of International Studies 29.4, ottobre 2003, e Hegemony or Survival.

(28) Vedi B. Franklin, War Stars, Oxford, 1988.

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