Useppe

Gustav Klimt: La vita e la morte, particolare

Gustav Klimt: La vita e la morte, particolare

Giro giro tondo
castello imperatondo
castello e palazzo
il sole sta nel sacco.
Esci esci sole
ché mamma tua ti vuole
e buttaci le pagnotte
per dare ai giovanotti
e buttaci i biscottini
per dare ai bambini
e buttaci le frittelle
per dare alle zitelle.

Mi son fatto un cappello fiorito.
«E quando te l’hai a mettere?»
Quando mi faccio zito.
Mi son fatto un cappello sfizioso.
«E quando te l’hai a mettere?»
Quando mi sposo.
E vado a spasso con due carrozze.
«Buon giorno, sor Capoccio».
E vado a spasso con due bandiere.
«Saluti, Cavaliere».
E tiriulì e tiriulà
zucchero panna e carufulà.

(Canto popolare infantile)

Il primo inverno della sua vita, come già l’autunno, Giuseppe lo passò in totale clausura, per quanto il suo mondo via via si fosse allargato dalla stanza da letto al resto dell’appartamento. Durante la cattiva stagione, tutte le finestre erano chiuse; ma anche a finestre aperte, in ogni caso la sua piccola voce si sarebbe dispersa nei rumori della strada e nel vocio del cortile. Il cortile era immenso, giacché il caseggiato comprendeva diverse scale, dalla scala A alla scala E. La casa di Ida si trovava all’interno 19 della scala D ed essendo all’ultimo piano non aveva vicini diretti. Oltre al suo, difatti, su quel ballatoio si apriva soltanto un altro uscio, più in alto, che portava ai serbatoi dell’acqua. E per Ida, nelle sue circostanze, questa era una fortuna.

Le stanze dell’interno 19 scala D erano, per Giuseppe, il mondo conosciuto; e anzi, l’esistenza di un altro mondo esterno doveva essere, per lui, vaga come una nebulosà, giacché, ancora troppo piccolo per arrivare alle finestre, dal basso non ne vedeva che l’aria. Non battezzato, né circonciso, nessuna parrocchia s’era preoccupata di riscattarlo, e lo stato di guerra, con la confusione crescente degli ordini, favoriva il suo bando dalla creazione.

Nella sua precocità, aveva presto imparato a camminare per la casa sulle ginocchia e sulle mani, a imitazione di Blitz, che forse fu il suo maestro. L’uscio dell’ingresso, per lui, era lo sbarramento estremo dell’universo, come le Colonne d’Ercole per gli antichi esploratori.

Adesso, non era più nudo; ma infagottato, per ripararsi freddo, in vari cenci di lana che lo facevano sembrare un poco più tondo, come i cuccioli nel loro pelo. Il disegno del suo viso ormai si precisava con evidenza. La forma del nasino cominciava a profilarsi, diritta e delicata; e i tratti, puri nella loro minuzia, ricordavano certe piccole sculture asiatiche. Decisamente, non somigliava a nessuno della parentela; fuorché negli occhi, quasi gemelli di quegli occhi lontani. Gemelli, però, nella fattura e nel colore; non nello sguardo. L’altro sguardo, infatti, era apparso terribile, disperato e quasi impaurito; e questo, invece, era fiducioso e festante.

Non s’era mai vista una creatura più allegra di lui. Tutto ciò che vedeva intorno lo interessava e lo animava gioiosamente. Mirava esilarato i fili della pioggia fuori della finestra, come fossero coriandoli e stelle filanti multicolori. E se, come accade, la luce solare, arrivando indiretta al sofitto, vi portava, riflesso in ombre, il movimento mattiniero della strada, lui ci si appassionava senza stancarsene: come assistesse a uno spettacolo straordinario di giocolieri cinesi che si dava apposta per lui. Si sarebbe detto, invero, alle sue risa, al continuo illuminarsi della sua faccetta, che lui non vedeva le cose ristrette dentro i loro aspetti usuali; ma quali immagini multiple di altre cose varianti all’infinito. Altrimenti non si spiegava come mai la scena miserabile, monotona, che la casa gli offriva ogni giorno, potesse rendergli un divertimento cosi cangiante, e inesauribile. Il colore d’uno straccio, d’una cartaccia, suscitando innanzi a lui, per risonanza, i prismi e le scale delle luci, bastava a rapirlo in un riso di stupore. Una delle prime parole che imparò fu ttelle (stelle). Però chiamava ttelle anche le lampadine di casa, i derelitti fiori che Ida portava da scuola, i mazzi di cipolle appesi, perfino le maniglie delle porte, e in séguito anche le rondini. Poi quando imparò la parola dóndini (rondini) chiamava dóndini pure i suoi calzerottini stesi a asciugare su uno spago. E a riconoscere una nuova ttella (che magari era una mosca sulla parete) o una nuova dóndine, partiva ogni volta in una gloria di risatine, piene di contentezza e di accoglienza, come se incontrasse una persona della famiglia.

Le forme stesse che provocano, generalmente, avversio ne o ripugnanza, in lui suscitavano solo attenzione e trasparente meraviglia, al pari delle altre. Nelle sterminate esplorazioni che faceva, camminando a quattro zampe, torno agli Urali, e alle Amazonie, e agli Arcipelaghi Australiani, che erano per lui i mobili di casa, a volte non si sapeva più dove fosse. E lo si trovava sotto l’acquaio in cucina, che assisteva estasiato a una ronda di scarafaggi, come fossero cavallucci in una prateria. Arrivò perfino riconoscere una ttella in uno sputo.

Ma nessuna cosa aveva potere di rallegrarlo quanto la presenza di Nino. Pareva che, nella sua opinione, Nino accentrasse in sé la festa totale del mondo, che dovunque altrove si contemplava sparsa e divisa: rappresentando lui da solo, ai suoi occhi, tutte insieme le miriadi dei colori, e il bengala dei fuochi, e ogni specie di animali fantastici e simpatici, e le giostre dei giocolieri. Misteriosamente, avvertiva il suo arrivo fino dal punto che lui cominciava appena la salita della scala! e sùbito si affrettava più che poteva, coi suoi mezzi, verso l’ingresso, ripetendo: ino ino, in un tripudio quasi drammatico di tutte le sue membra. Certe volte, perfino, quando Nino rientrava di notte tardi, lui, dormendo, al rumore della chiave si rimuoveva appena e in un sorrisetto fiducioso accennava con poca voce: ino.

La primavera dell’anno 1942 avanzava, intanto, verso l’estate. Al posto delle molte lane, che lo facevano sembrare un fagottello cencioso, adesso Giuseppe venne rivestito da Ida di certi antichissimi calzoncini e camiciole già appartenuti al fratello, e malamente adattati per lui. I calzoncini, addosso a lui, facevano da pantaloni lunghi. Le camiciole, ristrette alla meglio sui lati ma non accorciate, gli arrivavano fin quasi alle caviglie. E ai piedi, per la loro piccolezza, bastavano ancora delle babbucce da neonato. Cosi vestito, somigliava a un indiano.

Della primavera, lui conosceva soltanto le dóndini che s’incrociavano a migliala intorno alle finestre dal mattino alla sera, le stelle moltiplicate e più lucenti, qualche lontana macchia di geranio, e le voci umane che echeggiavano nel cortile, libere e sonore, per le finestre aperte. Il suo vocabolario si arricchiva ogni giorno. La luce, e il cielo, e anche le finestre, si chiamavano tole (sole). Il mondo esterno, dall’uscio d’ingresso in fuori, per essergli sempre interdetto e vietato dalla madre, si chiamava no. La notte, ma poi anche i mobili (giacché lui ci passava sotto) si chiamavano ubo (buio). Tutte le voci, e i rumori, opi (voci). La pioggia, ioia, e così l’acqua, ecc. ecc.

Con la bella stagione, si può immaginare che Nino sempre più spesso marinasse la scuola, anche se le sue visite a Giuseppe in compagnia degli amici oramai non erano più che un ricordo lontano. Ma una mattina di sereno meraviglioso, apparve inaspettato a casa, vispo e fischiettante in compagnia del solo Blitz; e come Giuseppe, spuntando da sotto qualche ubo, al solito gli muoveva incontro, lui gli annunciò, senz’altro:

«Ahó, maschio, annàmo! Oggi si va a spasso! »
E così detto, con azione immediata, si issò Giuseppe cavalluccio sulle spalle, volando come il ladro Mercurio giù per la scala, mentre Giuseppe, nella tragedia divina della infrazione, mormorava in una sorta di cantilena esultante:

«No.,. No… No…» Le sue manucce stavano chiuse quietamente dentro le mani del fratello; i suoi piedini, dondolanti nella corsa, pendevano sul petto di lui, cosi da avvertirne la violenza del respiro, fremente nella libertà contro le leggi materne! E Blitz veniva dietro, sopraffatto dalla sua doppia felicità amorosa al punto che addirittura, disimparando il passo, rotolava come un rimbambito giù gradini. I tre uscirono nel cortile, attraversarono l’androne; e nessuno, al loro passaggio, si fece a chiedere a Nino: «Chi è questo pupo che porti? » quasi che, per un miracolo quel gruppetto fosse diventato invisibile.

Così Giuseppe recluso fino dalla nascita compieva la sua prima uscita nel mondo, né più né meno come Budda. Però Budda usciva dal giardino lucente del re suo padre per incontrarsi, appena fuori, coi fenomeni astrusi della malatta, della vecchiaia e della morte; mentre si può dire che per Giuseppe, al contrario, il mondo si aperse, quel giorno, come il vero giardino lucente. Anche se la malattia, la vecchiaia e la morte, per caso, misero sulla sua strada i loro simulacri, lui non se ne avvide. Da vicino, immediatame sotto i suoi occhi, la prima cosa che vedeva, lungo la passeggiata, erano i riccetti neri di suo fratello, danzanti nel vento primaverile. E tutto il mondo circostante, ai suoi occhi, danzava nel ritmo di quei riccetti. Sarebbe assurdo citare qui le poche vie per dove passarono, nel quartiere di San Lorenzo, e la popolazione che si muoveva d’intorno a loro. Quel mondo e quella popolazione, poveri, affannosi e deformati dalla smorfia della guerra, si spiegavano agli occhi di Giuseppe come una multipla e unica fantasmagoria di cui nemmeno una descrizione dell’Alhambra di Granata o degli orti di Shiraz, né forse perfino del Paradiso Terrestre potrebbe rendere una somiglianza. Per tutta la strada, Giuseppe non faceva che ridere; esclamando o mormorando, con la piccola voce venata da una emozione straordinaria: «Dóndini, dóndini… ttelle… tole… dóndini… ioia… opi…» E quando infine si arrestarono su un misero spiazzale d’erba, dove due stenti alberi cittadini avevano messo le loro radici, e si riposarono a sedere su quell’erba, la felicità di Giuseppe, davanti a quella bellezza sublime, diventò quasi spavento; e si aggrappò con le due mani alla blusa del fratello.

Era la prima volta in vita sua che vedeva un prato; e ogni stelo d’erba gli appariva illuminato dal di dentro, quasi contenesse un filo di luce verde. Così le foglie degli alberi erano centinaia di lampade, in cui si accendeva non solo il verde, e non solo i sette colori della scala, ma ancora altri colori sconosciuti. I casamenti popolari, intorno allo spiazzo, nella luce aperta del mattino, essi pure sembravano accendere le loro tinte per uno splendore interno, che li inargentava e li indorava come castelli altissimi. I rari vasi di geranio e di basilico alle finestre erano minuscole costellazioni, che illuminavano l’aria; e la gente vestita di colori era mossa intorno, per lo spiazzo, dallo stesso vento ritmico e grandioso che muove i cerchi celesti, con le loro nubi, i loro soli e le loro lune.

Una bandiera batteva al di sopra di un portone. Una farfalla cavolaia stava posata sopra una margherita… Giuseppe sussurrò:

«Dóndine…»
«No, questa non è una rondine, è un insetto! una farfalla! Dì: FARFALLA».
Giuseppe ebbe un sorriso incerto, che lasciava vedere i suoi primi denti di latte da poco nati. Ma non lo seppe dire. Il suo sorriso tremava.
«Annàmo forza! Dì: FARFALLA! Ahó! diventi scemo?! e mò che fai? piagni?! se piangi, non ti ci porto più, a spasso!»
«Dóndine».»
«No rondine! È una farfalla, t’ho detto! E io, come mi chiamo? »
«Ino».
«E lui, questo animale qua col collaretto, come si chiama?»
«I».
«Bravo! Adesso ti riconosco!! E questa, allora, che è?»
«Lampàna».
«Macché lampana! FARFALLA! A’ scemo! E questo è albero. Dì ALBERO! E quello laggiù è un ciclista. Dì CICLISTA. Dì: Piazza dei Sanniti! »
«Lampàna. Lampàna. Lampana!» esclamò Giuseppe, apposta per fare il buffo, questa volta. E rise a gola spiegata di se stesso, proprio come un buffone. Anche Nino rise, e perfino Blitz: tutti insieme come buffoni.
«Mò basta de scherzà. Mò se tratta de discorsi seri. La vedi, quella che sventola? È la bandiera. Dì: BANDIERA».
«Dandèla».
«Bravo. Bandiera tricolore».
«Addèla ole».
«Bravo. E adesso di: eia eia alala».
«Lallà».
«Bravo. E tu, come ti chiami? Sarebbe ora, che imparassi il nome tuo. Sai tutti i nomi del mondo, e il tuo non l’impari mai. Come ti chiami?»
«…..»
«GIUSEPPE! Ripeti: GIUSEPPE!»
Allora il fratellino si concentrò, in una durata suprema di ricerca e di conquista. E traendo un sospiro, con viso pensieroso disse:
«Useppe».
«All’anima!! Sei un cannone, ahó! Pure la esse, ciài saputo métte! Useppe! Me piace. Più di Giuseppe, mi piace. Sai la novità? Io, per me, ti voglio chiamare sempre Useppe. E adesso monta. Si va via».

E di nuovo a cavalluccio sulle spalle di Nino, si rifece di carriera la strada indietro. Il ritorno fu più felice ancora dell’andata: giacché il mondo, persa la sua prima emozione tragica, s’era fatto più confidenziale. Esso era, in quella corsa di Nino, come una fiera di giostra: dove, per compiere la meraviglia delle meraviglie, fecero la loro apparizione uno dopo l’altro, due o tre cani, un somaro, vari veicoli, un gatto, ecc.

«I!… i!…» gridava Giuseppe (ovvero Useppe), riconoscendo Blitz in tutti gli animali quadrupedi che passavano, saltellanti, erranti o trainanti, e magari perfino nei veicoli a ruote. Donde Ninnuzzu prese occasione per arricchirgli ancora il dizionario con le parole automobile (momòbbile) e cavallo (vavallo); finché, stufo per oggi di fargli da maestro, lo lasciò alle sue creazioni di fantasia.

Alla loro seconda uscita, che seguì di là a pochi giorni, andarono a vedere i treni alla Stazione Tiburtina: non soltanto dalla parte della piazza, dentro la zona aperta ai passeggeri (momòbbili… ubo…), ma anche dentro la zona più speciale riserbata ai carri merci, alla quale si accedeva da una via retrostante. A questa zona, per il pubblico ordinario l’accesso era difeso da un cancello; ma Ninnuzzu, che contava qualche conoscenza fra gli addetti ai lavori, spinto il cancello vi entrò liberamente, come in un suo vecchio feudo. E difatti, fino dalla sua infanzia, quell’angolo del quartiere San Lorenzo era stata una sorta di riserva di caccia per lui e i suoi amici stradaioli.

Al presente momento, non ci si trovava dentro nessuno (salvo un ometto anziano, in tuta di fatica, il quale da lontano salutò Ninnuzzu con un cenno familiare). E l’unico viaggiatore visibile, sui pochi carri là in sosta, era un vitello, affacciato dalla piattaforma scoperta di un vagone. Stava là quieto, legato a un ferro, sporgendo appena la testa inerme (i due cornetti ancora teneri gliene erano stati estirpati); e dal collo, per una cordicella, gli pendeva una medagliuccia, all’apparenza di cartone, sulla quale forse era segnata l’ultima tappa del suo viaggio. Di questa, al viaggiatore non s’era data nessuna notizia; ma nei suoi occhi larghi e bagnati s’indovinava una prescienza oscura.

Il solo che parve interessarsi a lui fu Blitz, che nell’adocchiarlo fece un lieve, strascicato mugolio; però intanto, di sopra alla testa del fratello che se io teneva issato sulle spalle, anche Giuseppe lo andava osservando. E forse fra gli occhi del bambino e quelli della bestia si svolse un qualche scambio inopinato, sotterraneo e impercettibile. D’un tratto, lo sguardo di Giuseppe subì un mutamento strano e mai prima veduto, del quale, tuttavia, nessuno si accorse. Una specie di tristezza o di sospetto lo attraversò, come se una piccola tenda buia gli calasse davanti; e si tenne rivoltato indietro verso il vagone, di sopra le spalle di Ninnuzzu che ormai, con Blitz, marciava verso l’uscita.

«Vavallo… vavallo…» gli riuscì a dire appena, con bocca malsicura; ma lo disse tanto piano, che forse Ninnuzzu nemmeno lo udiva né si dette pena di correggerlo. E qui la minuscola avventura terminò. Il suo passaggio era stato di una durata infinitesima. E già i tre risortivano sulla piazza, dove un’altra avventura inaspettata scancellò presto l’ombra della prima.

Capitava a passare di là un venditore di palloncini colorati; e divertendosi al tripudio del fratello novizio, il generoso Nino spese quasi l’intero suo patrimonio per acquistargliene uno, di colore rosso. Allora ripresero la via casa non più in tre, ma in quattro, se si conta il palloncino del quale Giuseppe, con vera trepidazione, reggeva il filo… quando a un tratto, di lì a forse duecento metri, le sue dita involontariamente si rilasciarono, e il palloncino gli scappo in aria.

Pareva un dramma; però invece fu l’opposto. Difatti Giuseppe accolse l’evento con una risata di sorpresa e letizia. E con la testa indietro e gli occhi in alto, disse, per la prima volta nella sua vita, le seguenti parole, che nessuno gli aveva insegnato:
«Vola via! Vola via!»

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