USA: il più grande stato canaglia

usa-stato canagliaLeggere le prime pagine di The Real Terror Network, un volume a firma di Edward S. Herman, professore emerito di Finanza alla Wharton School della Pennsylvania University, sorprende per almeno due motivi: primo, il saggio risale al 1982 ma sembra scritto sull’onda dei più attuali avvenimenti che hanno turbato la scena internazionale, dall’11 settembre 2001 in poi; secondo, Herman introduce il concetto di retail terrorism , di difficile traduzione ma che potrebbe assomigliare a qualcosa come «terrorismo alla spicciolata».

Terroristi alla spicciolata sono stati, secondo l’autore, i gruppi a noi più noti, dall’Olp alle Brigate rosse, da Hizbullah all’Ira, e oggi Herman, da me interpellato, vi include certamente Hamas dello sceicco Ahmed Yassin e al-Qaida di Osama bin Laden. È un concetto che lascia il lettore perplesso, poiché definirli tali significa attribuirgli un ruolo marginale, una pochezza e un grado di imperfezione che non solo contrastano con l’orrore che le loro gesta criminali hanno suscitato, ma che presuppongono l’esi stenza di un terrorismo e di terroristi di ben altro calibro, qualco sa come «i veri terroristi». E chi sarebbero ?

«Lei mi fa una domanda retorica», risponde Herman , dopo aver mi invitato a consumare un brunch a pochi passi dalla Wharton School , e spiega:

Nel corso del XX secolo gli Stati dominanti, in particolare Stati Uniti, Gran Bretagna, Russia ma anche Francia e Germania, hanno perduto il monopolio del terrore e sono stati affiancati da questi terroristi alla spicciolata. Ma quegli Stati rimangono i veri e incontrastati maestri del terrorismo, sia per sistematicità che per numero di vittime innocenti.

Herman ironizza: «Ciò che ho scritto era ed è davanti agli occhi di tutti, ma tacciono i me dia e soprattutto gli intellettuali… Del resto, non fu George Savile , primo marchese di Halifax, ad affermare già nel XVII secolo che “un uomo che decidesse di chiamare le cose col loro vero nome non potrebbe mostrarsi in strada senza essere immediatamente abbattuto come nemico pubblico numero uno”?». Le sue tesi acquistano oggi connotazioni particolarmente polemiche. Siamo in piena «guerra al terrorismo», e alla testa della nuova crociata si sono posti proprio due paesi che Herman annovera fra i grandi terroristi: Stati Uniti e Gran Bretagna. «In questo teatro dell’assurdo», ha scritto l’accademico americano in un suo recente articolo, «è come se la Mafia si fosse posta alla guida della Corte internazionale di giustizia».

Contemplare questa nozione implica per chiunque di noi il sovvertimento del piano narrativo comune, e il dover riconoscere alle maggiori democrazie occidentali un ruolo, quello di grandi terroristi, che da sempre attribuiamo a entità a noi estranee. Eppure, superato il primo impatto, basta rendersi disponibili a gettare una prima occhiata oltre l’ovvietà e in effetti ci si comincia a insospettire. Un buon punto di partenza è la definizione ufficiale di terrorismo dell’ Fbi americano, che recita: «II terrorismo è definito come l’uso illegale della forza e della violenza contro persone o proprietà a fini intimidatori o coercitivi nei confronti di un governo, della popolazione civile o di ogni loro parte, per l’ottenimento di obiettivi politici o sociali». Semplicemente vagliando secondo questa definizione le politiche estere dei due leader della odierna «guerra al terrore» – anche solo nell’era contemporanea, per non parlare di epoche storiche più ampie – si realizza che essi sono Stati terroristi in diverse istanze.

E quando ci si rende disponibili a «vedere» ecco che affiorano prove di sostanziale portata ad avvalorare le tesi di Herman .Per esempio Il 27 giugno del 1986 la Corte internazionale di giustizia all’Aia, dopo due anni di complessi dibattimenti, giudicò gli Stati Uniti d’America colpevoli proprio di terrorismo su larga scala, ai danni del Nicaragua. Nella sentenza si accusava Washington di «uso illegale della forza», che nella terminologia giuridica internazionale significa terrorismo. Fra l’altro, come si è visto in precedenza, anche l’ Fbi americano impiega la stessa terminologia nella sua definizione ufficiale di terrorismo. Eppure di quella sentenza non si trova praticamente traccia nei testi accademici né nella memoria della quasi totalità degli esperti di politica internazionale. Vale la pena soffermarsi su questa vicenda poiché illustra appieno come, in effetti, la narrativa occidentale su chi sia terrorista venga scritta unicamente da chi – gli Usa in questo caso – detiene il maggior potere.

Ricapitolando: la Corte internazionale di giustìzia sentenzia che la guerra sporca di Reagan contro lo Stato sovrano del Nicaragua fu condotta con metodi terroristici, da terroristi (le squadre della morte dei Contras finanziate e addestrate da Washington ), nella violazione delle più elementari norme di legalità internazionale, e stabilisce un risarcimento per le vittime. Ma già a partire dal gennaio 1985 gli Stati Uniti avevano annunciato che non avrebbero preso parte ai dibattimenti, ritirarono il team di difesa e ignorarono ogni avvenimento successivo. Questo, ricordiamolo, in spregio del massimo organo giudicante mondiale. Testimone diretto della storia è David Mac Michael , che alla Cia fu per decenni il responsabile delle stime politiche per l’emisfero occidentale. Mac Michael vive oggi a Linden , in Virginia, e mi accoglie in un cottage a poca distanza dai gangli vitali dell’intelligence che ha servito per anni: «Gli atti più noti di terrorismo americano in Nicaragua», mi dice Mac Michael ,

furono il bombardamento del deposito petrolifero di Corinto nel 1983, poi minammo alcuni porti civili nel tentativo di mettere in ginocchio il paese economicamente, e infine ci infiltrammo lungo la frontiera con l’Honduras e assassinammo diversi funzionari civili del governo nicaraguense , fra cui medici, insegnanti, sindacalisti. Per queste ultime azioni ci servimmo di agenti addestrati e pagati da noi; vorrei ricordare che l’addestramento dei “nostri” terroristi avvenne anche su suolo americano, all’Accademia internazionale di polizia di Washington, che era una copertura della Cia sotto gli auspici della cooperazio ne internazionale.

Ora, basta immaginare queste medesime azioni compiute da soggetti a noi alieni, e contro di noi, ed ecco che appare evidente il concetto: il Nicaragua diventa l’Italia, i porti civili sono quelli di La Spezia o Napoli, i funzionari, insegnanti e medici assassinati hanno cognomi italiani, e gli agenti responsabili sono arabi addestrati da al-Qaida. Come verrebbe apostrofato chi si rifiutasse di chiamare ciò terrorismo? La risposta è superflua, eppure nel 1986 gli Stati Uniti d’America fecero proprio questo, anzi, peggio: Washington mise nero su bianco le direttive terroristiche per colpire il Nicaragua. Scritte nel manuale Operaciones Sicologicas , redatto da un agente con nome in codice Tayacàn , le istruzioni impartite ai Contras dai servizi americani furono di brutale chiarezza. A pagina 14, il paragrafo 3 ha per titolo: «Terrore implicito ed esplicito», e tre pagine dopo sono ospitate le direttive per «Uso selettivo della violenza», dove le parole di David Mac Michael trovano con ferma nella seguente frase: «È possibile neutralizzare target attentamente selezionati e pianificati, come i giudici, piccoli allevatori, poliziotti e amministratori statali».

Al Mit di Boston chiedo a Noam Chomsky , uno dei più rispettati critici dell’establishment americano, come fu possibile per Washington fare questo e passarla liscia: «Con l’arma del panico», risponde, «la Casa Bianca ha sempre tenuto a bada l’opinione pubblica ventilando pericoli esterni incombenti e dalle catastrofiche conseguenze: la Libia “ci vuole espellere dal mondo” avvertiva Reagan , che dei sandinisti del Nicaragua diceva: sono a “due giorni di macchina da Harlingen , nel Texas”». L’intellettuale americano rincara la dose: «I potenti possiedono le maggiori risorse per l’uso della violenza, ma quando sono loro a usare violenza la chiamano autodifesa, al contrario quando le loro vittime o qualcun al tro usano violenza allora quello si chiama terrorismo. Gli esempi di questa ipocrisia si sprecano: nel 1988, quando Washington era fermamente alleata al governo razzista del Sudafrica, il Pentagono definì Nelson Mandela “uno dei più pericolosi terroristi del mondo”, e naturalmente il governo di Pretoria si stava solo “difendendo” contro i “terroristi” di Mandela . In quegli anni il Sudafrica bianco fu responsabile della morte di circa un milione e mezzo di persone, dentro e fuori dalle sue frontiere».

Parlavo poc’anzi di prove di sostanziale portata che avvalorano la tesi secondo cui i due leader dell’attuale «guerra al terrorismo», America e Inghilterra, deterrebbero il primato dell’uso del terrore a scopi politici. La parola chiave di ogni ricerca è « declassificare », cioè costringere quei governi a rendere pubblici alcuni documenti finora coperti dal segreto di Stato. Lavoro lungo e non facile, reso possibile negli Stati Uniti e in Gran Bretagna da due civilissime leggi, il Freedom of Information Act e il Public Records Act rispettivamente. Ma quando quei documenti sono arrivati, il loro racconto è stata una lunga e scioccante storia di connivenza, sostegno o diretta partecipazione angloamericana nei massacri, negli stermini e nelle violenze del peggior terrorismo dell’era contemporanea. Alcuni degli episodi che ricorderò, pur appartenendo a una storiografia a grandi linee conosciuta, sono assai poco noti, ma ciò che distingue questa narrazione è il costante sostegno di prove do cumentali tratte da archivi di Stato, che molto raramente appaiono accanto ai più noti « j’ accuse» a carico delle politiche estere del le due grandi potenze in esame.

Un raggio di luce in Asia

È l’autunno del 1965, in Indonesia un colpo di Stato porta al potere il generale Suharto. A quel tempo la forza politica maggiore nel paese era il Pki , Partito comunista d’Indonesia, con un sostegno di massa fra i contadini di quell’immenso arcipelago. Stati Uniti e Gran Bretagna temevano che il Pki si potesse imporre trasformando l’Indonesia e le sue ricche risorse in un bastione antioccidentale. Suharto si fece subito carico dell’abolizione del Partito comunista, un’abolizione non politica ma fisica. Nello spazio di pochi mesi il suo esercito, affiancato da bande di estremisti musulmani, massacrò da un milione a due milioni di esseri umani, in maggioranza civili innocenti, e sia gli americani che gli inglesi ne furono prontamente informati. Nel telegramma FO3 71/180309 del 30 ottobre 1965 l’ambasciata britannica a Jakarta dichiarava: «La gente che viene così trattata sono persone comuni, spesso nulla più che contadini spaventati che non sanno come rispondere al le bande di assassini assetati di violenza». Dal telegramma inglese F0371/180325 del 25 novembre 1965: «Gli uomini e le donne del Pki vengono giustiziati in grandi numeri. Sembra che dapprima gli offrano un coltello per uccidersi, al rifiuto vengono ammazzati con un colpo alla schiena». Nel dispaccio A-527 del 25 febbraio 1966 l’ambasciata americana scriveva: «Si stimano a Bali già 80.000 morti […] le stragi continuano e non se ne vede la fine». Eppure la stampa americana si profuse in lodi sperticate di Suharto . Il New York Times lo descrisse come «un raggio di luce in Asia», Newsweek dichiarò «È la speranza là dove non ve n’era», L’Economist lo apostrofò come «un moderato dal cuore benevolo». E mentre il terrore falciava migliaia di innocenti, i diplomatici angloamericani esprimevano grande approvazione: «È stato detto chiaramente che sia l’ambasciata americana che il governo degli Stati Uniti condividono e ammirano quello che l’esercito sta facendo» ( Tei . 1326 ref . Embtel . 1271, 4 novembre 1965). L’ambasciatore inglese Sir Andrew Gilchrist commentò: «Non vi ho mai nascosto la mia convinzione che qualche fucilata in Indonesia fosse la condizione essenziale per un cambiamento effettivo» (FO371/180318, 5 ottobre 1965).

In particolare, Washington si fece in quattro per condurre operazioni coperte di sostegno militare al terrore di Suharto , come scrisse l’ambasciata Usa a Jakarta nel telegramma 1288 del primo novem bre 1965: «Nel frattempo potremmo considerare la disponibilità di armi leggere, meglio se non americane, che si possono ottenere senza l’aperto coinvolgimento del governo americano. Potremmo fornire assistenza segreta all’esercito per l’acquisto di armi». L’appoggio angloamericano al terrorismo di Suharto (che annovera anche l’elargizione di prestiti per 80 miliardi di dollari del Fondo monetario internazionale a favore di questo genocida , autorizzati dall’US Treasury e intascati da un’elite di 200 individui e mai restituiti) continuerà nei decenni e attraverserà indenne un altro massacro immane, per durare fino all’era Clinton . Nel 1975 , infatti, Suharto invase illegalmente l’isola di Timor Est, ex colonia portoghese, con i metodi consueti: quella volta il generale indonesiano si accontentò e di civili innocenti ne sterminò «solo» 200 mila. Lo storico inglese Mark Curtis , Research Fellow al Royal Institute of International Affairs di Londra e autore del controverso volume Web Of Deceit sul terrorismo di Stato britannico, mi dice: «Negli anni successivi all’invasione di Timor Est, mentre le stragi stavano causando le migliaia di morti che oggi sappiamo, Londra aumentò vertiginosamente il suo sostegno militare al regime, arrivando cinque anni dopo a essere il secondo fornitore mondiale di armi a Jakarta ». L’America partecipò a quella sanguinosa pagina di storia con aiuti militari alla giunta. In un memorandum del Consiglio per la si curezza nazionale del 12 dicembre 1975 indirizzato a Bent Scowcroft, sono enumerate le armi americane usate durante l’invasione: «Due fregate coinvolte nei bombardamenti su Timor Est, cinque mezzi da sbarco US511, cinque aerei da trasporto truppe C47, 8 Hercules C130. Sia la diciassettesima che la diciottesima brigata aerotrasportate indonesiane sono totalmente sostenute e addestrate dai nostri militari ».

Ma soprattutto, nel telegramma « Department of State, Secret Section Jakarta 14946» del dicembre 1975 viene riportato integralmente il colloquio avvenuto fra il presidente americano Ford , accompagnato dall’allora segretario di Stato Kissinger, e Suharto durante una visita ufficiale a Jakarta , e nel corso del quale il dittatore indonesiano chiese e ottenne la piena approvazione di Washington per la sanguinosa invasione di Timor Est. Un fatto questo che Kissinger ha sempre negato in maniera categorica, ma che in vece così avvenne:

Suharto : «Noi desideriamo la vostra comprensione se dovessimo decidere di agire rapidamente e drasticamente». Ford : «Noi comprenderemo e non le faremo pressioni su questo. Capiamo il suo problema e le sue intenzioni».

Kissinger : «È importante che qualsiasi cosa lei faccia abbia un rapido successo. Potremo influenzare le reazioni in America se qual siasi cosa succeda accada dopo il nostro ritorno… Il presidente arriverà lunedì alle due del pomeriggio ora di Jakarta ». Al decollo dell’aereo presidenziale americano scattò l’invasione e il seguente massacro di 200 mila esseri umani. Questo fu Suharto , ma ancora a metà degli anni Novanta il governo del presidente Clinton lodava questo terrorista definendolo «un tipo che fa per noi»: lo scrisse il New York Times il 31 ottobre 1995.

Un modello politico di successo… da distruggere

Negli anni Sessanta l’America Latina viveva i prodromi di un’analoga storia di terrore su grande scala, architettata da dittature militari e che durerà trent’anni proprio perché direttamente sostenuta da Washington. Non prendo in esame qui i fatti più noti, come ad esempio i regimi di Cile o Argentina, bensì episodi di terrorismo meno conosciuti ma che più assomigliano a ciò contro cui oggi gli Stati Uniti conducono la «guerra al terrore». Pubblicamente l’America suonava l’allarme contro l’avanzare del pericolo comunista, ma sembra che le ragioni del sostegno e della partecipazione americana al terrore militare latinoamericano fossero altre. L’agente David Mac Michael, che come si è detto era responsabile delle stime politiche della Cia per l’emisfero occidentale, mi dice: «Alla Cia non abbiamo mai creduto che l’America Latina potesse divenire un blocco comunista in stile est europeo. Quello che si temeva era che le nazioni latinoamericane potessero usare l’appoggio dell’ Urss per portare avanti programmi politici e sociali che erano contrari agli interessi di Washington».

È d’accordo Peter Kornbluh, uno dei più stimati politologi d’America, ricercatore alla George Washington University e forse oggi il maggiore studioso della documentazione top secret sui rapporti fra Stati Uniti e America Latina: «I documenti di Stato riportano con chiarezza che mentre in pubblico Nixon parlava di pericolo comunista, al Consiglio per la sicurezza nazionale egli dichiarò che Allende avrebbe portato nel mondo un modello politico di successo, un socialismo antagonista agli interessi americani e dunque da di struggere».

La controinsurrezione in America Latina divenne la parola d’ordine a Washington, o meglio, divenne un passe-partout che giustificava qualsiasi efferatezza. Le testimonianze di ciò non mancano, ma poche hanno la pregnanza e la drammaticità del memorandum segreto che il diplomatico americano Viron Vaky spedì dal Guatemala al Dipartimento di Stato Usa nel marzo del 1968. Scri veva Vaky : «La gente viene uccisa o scompare sulle basi di semplici accuse, […] gli interrogatori sono brutali, usano la tortura e mutilano i corpi. […] Noi abbiamo tollerato la controinsurrezione, l’abbiamo incoraggiata e benedetta. […] Siamo talmente ossessionati dalla paura delle insurrezioni che ci siamo sbarazzati di ogni remora. […] E così l’omicidio, la tortura e le mulilazioni sono giusti se sono i nostri alleati a farlo e se le vittime sono comunisti . [… Ma è possibile che una nazione così fedele alla legalità possa così facilmente acconsentire a queste tattiche terroriste?» ( Depaitment of State, Policy Planning Council , 29-3-1968 ). Nel nome della controinsurrezione in quell’ area, Washington impiegò gli strumenti terroristici che di seguito sommariamente elenco. Passò alla giunta militare del Guatemala una lista di persone da assassinare, dove si legge: «Selezione di individui per l’eliminazione da parte della Giunta militare – Categoria 1 – Persone da eliminare attraverso azione esecutiva». Segue un elenco di 58 nomi (Memorandum, Ali Staff Officers , 31-3-1954 ). Pubblicò un manuale per assassini, che dichiara : «E raro che si possa mantenere una coscienza pulita nell’assassinare qualcuno. Chi è deboluccio di coscienza è meglio che neppure ci provi». I particolari di questo manuale sono agghiaccianti, e spaziano dai dettagli su come ammazzare con le mani, a come l’assassino dovrà fingersi testimone inorridito del delitto per fugare i sospetti; vi si insegna come drogare una vittima e bruciarla viva o come perforargli il midollo spinale, e infine vi si legge: «In nessun caso le istruzioni per assassini devono essere scritte o registrate», in un’evidente contraddizione (A Study of Assassination . The National Security Archive , Washington).

Infine Washington scrisse e divulgò il manuale per interrogatori Kubark , che sarà usato per decenni come «guida al terrore» nell’America Latina, e dove gli Stati Uniti insegnano apertamente la tortura. A pagina 8 è scritto: «Per gli interrogatori coercitivi, va richiesta approvazione da parte del Quartier Generale nelle seguenti circostanze: 1) se si deve infliggere dolore fisico 2) se strumenti medici, chimici o elettrici devono essere usati per indurre obbedienza». E poi, dopo raccomandazioni su come dotare di sufficiente corrente elettrica le stanze per gli interrogatori e sull’uso della tortura psicologica, a pagina 103 un riassunto finale recita: «Le principali tecniche coercitive sono: l’arresto, la detenzione, la deprivazione sensoriale, le minacce, la paura, la debilitazione, il dolore, la suggestione, l’ipnosi e le droghe» ( Kubark, Counterintel-ligence Interrogation , July 1963, Cia Manual ). Che la tortura sia stata e rimanga forse il più rivoltante dei terrorismi è testimoniato dalle diapositive che i medici del Rehabihtation Center for Torture Victims di Copenaghen hanno raccolto in 30 anni di lavoro e dove ciò che rimane dei corpi sottoposti a quei trattamenti è spettacolo quasi impossibile da tollerare, anche solo per pochi istanti, per non parlare della devastazione psicologica di chi è sopravvissuto.

Gli angioletti dell’inferno

Undici dicembre 1981, villaggio di El Mozote , provincia di Morazàn , El Salvador. Un corpo d’elite dell’esercito salvadoregno, il battaglione Atlacatl , circonda le abitazioni nell’ambito di un’operazione anti-«sovversivi». Gli abitanti sono separati in gruppi: uomini, donne e bambini. Lo sterminio inizia dagli uomini, poi le donne e poi i bambini, questi ultimi uccisi dentro la chiesa a fucilate e coltellate come agnelli in gabbia. Alla fine, la strage conterà quasi 1.200 morti, tutti civili inermi. Il battaglione Atlacatl lascerà la sua firma, scritta con un pezzo di carbone su un’asse di legno inchioda ta a uno stipite bruciato: «Qui è stato il battaglione Atlacatl , il padre dei sovversivi, seconda compagnia. Avete fatto una cagata, figli di puttana. Se avete bisogno di palle chiedetele per corrispondenza al battaglione Atlacatl, gli angioletti dell’inferno». A San Salvador incontro Santiago Consalvi, un giornalista dell’allora clandestina radio Venceremos, che ricorda come la scena si presentò ai primi testimoni alcune settimane dopo: «Fui uno dei primi ad arrivare a El Mozote pochi giorni dopo l’eccidio. Quello che vidi fu una scena… dantesca. Contammo i corpi di 400 bambini massacrati, cadaveri ovunque, braccia mozzate, un odore rivoltante. Alcuni resti umani erano anche bruciati, perché l’esercito diede fuoco alle case prima di lasciare il posto». La gente che vive oggi a El Mozote ovviamente non ha ricordi del massacro, perché ha ripopolato il villaggio solo molti anni dopo, nel 1993. Eccetto una persona, che ricorda tutto perché vide tutto . Si chiama Rufina Amava, è l’unico essere umano sopravvissuto all’eccidio, e oggi vive a pochi chilometri da El Mozote . Rufina perse allora tre figli, di cui il più piccolo ancora lattante. Con lei visito il luogo della strage, rimasto pressoché intatto, con le rovine delle case, i muri crivellati di colpi e un’atmosfera plumbea, in quietante ancora oggi.

Rufina, seduta su una lastra di pietra, da le spalle ai luoghi del suo orrore e racconta a frasi concitate e mozze: «I militari arrivarono alle 6 del pomeriggio. Le donne furono subito portate in due case diverse, quella di Alfredo Marques e quella di Benita Dias. Poi la mattina seguente arrivò un elicottero e iniziarono a torturare gli uomini. A mezzogiorno cominciarono con le donne e lì iniziò la strage… Le donne venivano uccise a gruppi… io avevo i miei tre figli intorno, tra cui una bimba che ancora allattavo, mi strapparono i figli, e così alle altre. Nella confusione mi nascosi fra i cespugli , ma sentivo i bambini urlare e anche i miei bambini mi chiamavano… I bambini chiamavano le madri… I miei figli mi urlavano ” mammina difendici… ci uccidono con dei coltelli e con le pallottole”, ma non potevo fare nulla… Io pregavo continuamente proprio per non piangere perché mi avrebbero sentita, e allora fe ci un buco nella terra, ci ficcai la testa e scoppiai a piangere». Rufina Amava scapperà a carponi fra pecore e cani spaventati dagli incendi, e rimarrà alla macchia per sei mesi. Deve la sua salvezza a una famiglia di campesinos che la raccolse e la restituì alla vita.

I terroristi del battaglione Atlacatl , gli uomini capaci di fare questo a 400 bambini e a 800 civili inermi, ebbero un sostegno diretto, ripetuto e consapevole proprio dalla nazione che oggi si è posta alla guida della guerra al terrorismo, gli Stati Uniti d’America. Le prove, nel memorandum segreto 1-90/51466 che il sottosegretario alla Difesa Carl W. Ford spediva nell’aprile del 1990 all’onorevole John Joseph Moakley . L’eccidio, lo ricordo, avveniva nel dicembre del 1981: «II battaglione Atlacatl », scrisse Ford , «fu in effetti ad destrato dai militari degli Stati Uniti nel 1981. Furono addestrati un totale di 1.383 soldati. L’addestramento fu condotto nel Salvador». La strage di El Mozote divenne di dominio pubblico nel giro di pochi mesi, ma nonostante ciò l’appoggio americano ai terroristi dell’Atlacatl non cesserà e durerà per altri 8 anni, fino al 1989 quando l’Atlacatl firmerà un’altra strage, quella dei 6 gesuiti e delle due perpetue massacrati nei locali dell’Università Cattolica.

II memorandum Ford infatti dichiara: «All’interno della valutazione del distaccamento, abbiamo addestrato 150 soldati del battaglione Atlacatl . L’addestramento fu interrotto il 13 novembre del 1989».

E mentre le autorità salvadoregne mentivano su El Mozote, i diplomatici statunitensi le rassicuravano e garantivano aiuti militari ribadendo comunità di interessi con la giunta. Nel documento riservato Department of State 028027 del febbraio 1982, un diplomatico americano in Salvador scriveva: «Oggi di fronte al Congresso Tom Enders ha difeso lo stanziamento di altri 55 milioni di dollari in armamenti al Salvador. […] Il generale Garcia, ministro della Difesa salvadoregno, mi ha detto che la storia di Morazàn e di El Mozote è una favoletta, è pura propaganda marxista senza fondamento. Gli ho risposto che è chiaramente propaganda, sapientemente costruita . E come zuccherino finale, gli ho ricordato che il Washington Posi sostiene le nostre politiche comuni». Alla luce di queste pagine di storia, diviene assai difficile credere all’attuale presidente Bush quando dichiara che l’America ha scelto «la libertà e la dignità per ogni vita umana».
Un orientamento… essenziale per le nostre mire politiche in Medio Oriente e in Asia

Veniamo a tempi ancor più recenti. Il presidente George W. Bush e il premier britannico Tony Blair hanno più volte tuonato contro i paesi che forniscono sostegno ai terroristi, ma proprio America e Inghilterra sono accusate di aver armato e sostenuto il terrore che ha devastato e ancora devasta il Sud-Est turco. Negli anni Novanta il governo turco scatenò una campagna di terrore contro la minoranza curda nel Sud-Est del paese col pretesto di eliminare il Pkk, un gruppo di guerriglieri e talvolta terroristi curdi noti per i loro violenti metodi. Ma cosa c’entravano i civili, le donne e i bambini? Due milioni di civili curdi furono cacciati dal le loro case, furono torturati, ammazzati, incarcerati. L’efferatezza di Ankara giunse al punto che nel 1994 lo stesso ministro turco Azimet Koyìuoglu dichiarò che quei metodi equivalevano a «terrorismo di Stato». Jonathan Sugden di Human Rights Watch di Londra , fra le più rispettate organizzazioni per i diritti umani del mondo, denuncia: «Le forze speciali dell’esercito bruciarono e di strassero 3.600 villaggi, con un esodo di rifugiati drammatico, dopo avergli sterminato il bestiame da cui dipendevano per sopravvivere. Va aggiunto che a quella repressione si assommavano le torture degli arrestati: fra il 1990 e il 1995 la tortura fu usata sistematicamente, e sappiamo di almeno 90 persone torturate a morte laggiù».

Incalza Noam Chomsky : «Nel solo anno 1997, sotto l’ mministrazione del presidente Clinton , Washington vendette più armi alla Turchia di quanto abbia mai fatto nell’intero periodo della guerra fredda. E questo non è chiudere un occhio di fronte alle atrocità, questa è partecipazione entusiasta in alcuni dei peggiori atti di terrorismo contro civili di tutti gli anni Novanta». Una partecipazione che non poteva essere inconsapevole . Infatti già nel 1995 Human Rights Watch aveva pubblicato e inviato ai nostri governi un dettagliato rapporto, dove si leggeva: «Gli Stati Uniti hanno riversato armi potenti nell’arsenale turco per anni, divenendo complici in una campagna di terra bruciata che viola le norme più fondamentali della legalità internazionale». E nel giugno dello stesso anno un rapporto del Dipartimento di Stato americano sulla Turchia confermava la denuncia di Human Rights Watch, rendendo inoltre innegabile la piena consapevolezza del governo statunitense sulle atrocità in terra turca. Scrisse l’estensore del rapporto: «Armi americane sono state usate nelle operazioni contro il Pkk, durante le quali sono stati commessi abusi dei diritti umani. È molto probabile che quelle armi furono usate durante l’evacuazione e distruzione dei villaggi» (U.S. Dep. of State, 95-6-01, Rep. on Allegations of Human Rights Abuses by thè Turkish Military ).

Ma alla fine del rapporto, ecco perché a Washington quel terrorismo non viene chiamato terrorismo, perché quelle torture non sono riconosciute e quei morti contano di meno: «La Turchia continua a essere di grande importanza strategica per gli Stati Uniti. Il suo orientamento pro occidentale è essenziale per le nostre mire politiche in Medio Oriente e in Asia centrale». Oltre agli americani, il sostegno principale all’efferatezza dei militari turchi veniva dalla Germania, ma anche dall’Inghilterra: la lista di licenze per l’esportazione di armi inglesi ad Ankara firmate dal governo laburista di Tony Blair nei tre anni della peggior repressione (1997-99) ne conta 149, per un totale di 400 milioni di sterline di cui 253 milioni garantiti dall’Export Credits Guarantee Department (l’equivalente della nostra Sace ).

Stato canaglia

Tutto ciò contrasta chiaramente con la retorica che accompagna l’odierna guerra occidentale al terrore, e in particolare con la sua le gittimità morale, che alla luce di quanto appena scritto, appare fatalmente incrinata. Una retorica che ci ha regalato dichiarazioni ine quivocabili, come questa pronunciata dal presidente americano Bush al discorso per lo Stato dell’Unione del 2002: « Finché le nazioni ospiteranno i terroristi, la libertà sarà in pericolo». L’amministrazione americana chiama queste nazioni «Stati canaglia» (rogue states), una definizione escogitata dall’attuale segretario di Stato Colin Powell quando era Chairman del Joint Chiefs of Staff dall’89 al ’93. Ma, di nuovo, se adottiamo questa dottrina alla lettera sia la Gran Bretagna che gli Stati Uniti posseggono tutte le carte in regola per es sere definiti «Stati canaglia», poiché ospitano e proteggono terroristi. Le prove non mancano, iniziando da un’esclusiva di questa inchiesta che necessita di una breve introduzione. Si parte da un nome, David Walker, che è oggi un consulente di successo di una delle più note agenzie di sicurezza privata d’Inghilterra, la Saladin Security di Londra, i cui uffici risiedono nella prestigiosa Abingdon Road. Walker entra in questa inchiesta per caso, quando una mia fonte vicina alla Cia mi dice che anche gli inglesi parteciparono al terrorismo contro il Nicaragua, attraverso un intreccio piuttosto sordido che è materia sconosciuta ai più. Il bandolo della matassa è in un documento top secret dell’intelligence americana, che ho ottenuto, relativo al noto scandalo Iran Contras. Intitolato Note OFSLOG£1 DO White House Communications Agency, fu scritto l’8 maggio del 1986 da Oliver North, il grande manovratore dell’affare, e indirizzato all’ammiraglio Poindexter. North vi descrive la proposta fallagli dall’allora dittatore di Panama Manuel Noriega di assassinare la dirigenza sandinista del Nicaragua, e specifica: «In cambio della nostra promessa di ripulire la sua immagine e di togliere l’embargo sulla vendita di armi a Panama, Noriega si impegna a far fuori i leader sandinisti per nostro conto». Poche righe più in basso North cita anche un attentato contro un arsenale nel centro di Managua, la capitale del Nicaragua , organizzato dagli Stati Uniti con l’aiuto di Noriega ma messo in atto da certi «amici inglesi». Si legge: «Mi è stato detto che Noriega già ci aiutò l’anno scorso nell’operazione che portò all’esplosione dell’arsenale col conseguente incendio. […] Non ne ero informato e ho chiesto ai nostri amici inglesi che guidarono l’operazione a Managua ».

Mi colpisce questa citazione degli inglesi, e attraverso la mia fonte americana arrivo al nome dell’autore materiale dell’attentato, David Walker, ex agente delle Sas britanniche, riciclato oggi alla Saladin Security. La mia fonte aggiunge un particolare tragico: quando North scriveva del «conseguente incendio» si riferiva a un ospedale civile adiacente all’arsenale, che prese fuoco e dove bruciarono vivi molti pazienti.

A Londra mi metto sulle tracce di Walker, e dopo non poche difficoltà e reticenze lo trovo , ma solo attraverso un numero di cellulare. Il suo rifiuto di incontrarmi è secco, ma al telefono Walker commenta la strage da lui causata, in un ospedale di un paese aggredito illegalmente, con le seguenti parole: «Se è servita a promuovere la democrazia in Nicaragua, allora ne è valsa la pena». L’invito al lettore è di immaginare la reazione di chiunque di noi se una simile frase venisse pronunciata da un agente di al-Qaida responsabile di un crimine identico ai danni di un ospedale americano o europeo, perpetrato ai fini di «promuovere» i suoi valori in Occidente. Eppure Walker, un terrorista in piena regola, vive libero e indisturbato nella Londra di Tony Blair .

Libero e indisturbato vive anche Orlando Bosch, che ho trovato a Miàmi tranquillamente sistemato in una casetta alla periferia del la città. L’ Fbi lo descrive come uno dei più inumani terroristi degli ultimi tempi, e di lui il Dipartimento di Giustizia americano scrisse: «Per trent’ anni Bosch ha propugnato la violenza terrorista in modo risoluto e senza cedimenti. Ha minacciato e portato a termine attacchi terroristici contro numerosi bersagli. […] Le sue azioni sono state quelle di un terrorista indifferente alle leggi e alla decenza umana, che ha inflitto violenza senza considerazione alcuna per l’identità delle sue vittime» (US Dep. of Justice , File A28851622, 23-1-89). Esse furono principalmente cittadini americani o cubani accusati di simpatizzare per l’odiato Fidel Castro; il dipartimento di Giustizia sostiene che Bosch fu implicato in attentati dinamitardi contro uffici e ambasciate, in sequestri di persona, tentativi di omicidio, nell’affondamento di navi e nell’abbattimento di aerei. Come leader del gruppo terrorista Coni, è il principale indiziato per l’abbattimento nel 1976 di un aereo civile cubano con la morte di tutti i passeggeri a bordo, e fu persino indagato per l’assassinio del presidente Kennedy .

Scovarlo è stata un’impresa non facile, in una ridda di contatti e indirizzi andati a vuoto, ma poi ci sono riuscito e ho tentato di parlargli. Bosch si chiuderà in casa e non mi aprirà più la porta nonostante i miei ripetuti appostamenti; poi una mattina sparisce, i vicini di casa lo hanno visto partire all’alba. Ma torniamo ai documenti. Nel 1989 il sostituto procuratore generale Joe D. Whitley aveva deciso con chiarezza: Orlando Bosch andava espulso dall’America. Allora, perché un terrorista così pericoloso è ancora libero e tranquillo nella sua casa di Miami? Mi risponde Max Lesnik, un giornalista di spicco di Miami, che Bosch e compagni tentarono di ammazzare 12 volte, con 12 bombe: «È risaputo che questi terroristi avevano mire collimanti con quelle di diversi governi americani, e infatti furono usati nelle operazioni sporche che Washington portava avanti in Nicaragua, Salvador, o Cuba». Lesnik aggiunge: «Si può dire che costoro erano l’espressione del terrorismo coperto delle amministrazioni americane, e infatti Orlando Bosch e il suo terrore furono ufficialmente perdonati dal presidente Bush senior nel 1991. Il presidente doveva anche assecondare l’elettorato cubano americano di destra della Florida, che è oggi in mano a suo figlio Jebb ».

Le storie finora raccontate rivelano un evidente sistema di due pesi e due misure, applicato da paesi che oggi rivendicano non solo la supremazia morale nella lotta al terrorismo, ma anche il diritto esclusivo di colpire extragiudizialmente chiunque offra santuario a terroristi. Esclusivo è qui la parola chiave, che significa che quel diritto non esiste per alcun altro, naturalmente. Non esiste per Haiti, che secondo la dottrina Bush avrebbe tutte le ragioni per bombardare New York, che ospita e protegge uno dei peggiori terroristi che abbiano mai abitato i Caraibi , e sto parlando di Emmanuel Constant, il leader del Fraph , le squadre della morte che terrorizzarono Haiti nel biennio 1993-94, responsabili di crimini che collimano con la definizione di terrorismo dell’ Fbi . Nell’ordine di espulsione numero #A 74 002 009 del settembre 1995 a carico di Constant, il dipartimento di Giustizia americano scriveva: «II segretario di Stato ha decretato che la presenza del signor Constant negli Stati Uniti è gravemente contraria ad essenziali obiettivi di politica estera. Il governo americano ha concluso che il Fraph è un’organizzazione illegittima i cui membri furono responsabili di molte violazioni dei diritti umani ad Haiti. Come loro leader, il signor Constant è stato accusato di condotta abominevole e notoria . Egli dovrebbe rispondere di queste accuse di fronte al governo democratico di Haiti».

Un tribunale haitiano lo aveva infatti condannato all’ergastolo in contumacia, ma nonostante questo e l’ordine di espulsione che abbiamo visto, Emmanuel Constant vive libero a New York. Amnesty International , nel suo rapporto intitolato Stati Uniti d’America, il rifugio dei torturatori, avanza una ipotesi sui motivi: che Constant , mentre ammazzava e mutilava persone ad Haiti, fosse sul li bro paga della Cia .

Ma il particolare di questa vicenda che più colpisce, e che meglio illustra l’ipocrisia di chi oggi conduce la crociata contro il terrorismo, è il seguente: alla fine di settembre del 2001, l’America aggredita dal terrorista bin Laden ne chiedeva l’estradizione dall’ Afghanistan . L’Afghanistan tergiversò, Washington lo bombardò a tappeto. Ma negli stessi giorni nascosta in fondo a pagina dieci del New York Times appariva questa notizia: «II presidente di Haiti, Jean Bertrand Aristide, chiede con urgenza agli Stati Uniti l’estradizione di Emmanuel Constant , che vive a New York» (1-10-2001).

Gli Stati Uniti ignorarono la richiesta e il terrorista di Haiti rimane impunito e protetto.

Un altro nome si incatena assai bene a quelli di Walker, Bosch e Constant, ed è quello di Dan Mitrione. Anche se ci costringe a un salto indietro di diversi anni, è una storia che vale la pena raccontare poiché ci offre una prospettiva di quanto fu reiterata nel tem po l’ipocrisia finora descritta. Mitrione fu a capo dell’Ufficio americano per la sicurezza pubblica in Uruguay negli ultimi anni Sessanta, e ufficialmente il suo compito era quello di addestrare la polizia locale. Ma secondo le ricerche fatte dal giornalista del New York Times J.A. Langguth, pubblicate nel volume Hidden Terrors e mai smentite, né ufficialmente né dalla famiglia di Mitrione, la sua specialità fu l’insegnamento della tortura. «Il dolore preciso, nel posto giusto, nella quantità necessaria, per l’effetto desiderato» era il suo slogan, e per addestrare i suoi studenti nell’uso della corrente elettrica sui testicoli, usò cavie umane scelte fra i senza fissa dimora di Montevideo, che morirono tutti sotto tortura. Sembra che Mitrione fosse anche un maestro del terrore psicologico: amava riprodurre una cassetta con grida strazianti di donne e bambini nella cella accanto a quella dell’interrogato di turno, cui veniva detto che si trattava della sua famiglia sottoposta a tortura. Alla morte di Mitrione, ucciso nel 1970 dai guerriglieri tupamaros, il segretario di Stato americano William Rogers era in prima fila al funerale, mentre il portavoce della Casa Bianca Ron Ziegler lo celebrò con le seguenti parole: «Dedicò il suo lavoro alla causa del progresso e della pace, [.. . ] rimarrà come esempio per tutti gli uomini liberi». Il 29 agosto dello stesso anno Frank Sinatra e Jerry Lewis diedero uno spettacolo di beneficenza a favore della sua famiglia. Nulla di quanto scritto finora ha trovato grandi spazi nei dibattiti post-11 di settembre, il silenzio degli intellettuali è stato quasi unanime, con l’eccezione dei soliti pochi, Chomsky in testa, che su queste vicende ha commentato: «Se vogliamo essere minimamente onesti, se vogliamo avere almeno uno straccio di moralità, dobbiamo applicare a noi stessi la legge che pretendiamo venga applicata agli altri. Se non siamo disposti a fare questo tanto vale che abbandoniamo ogni pretesa di distinguere il bene dal male».
Migliala di assassini pericolosi, addestrati per uccidere e spesso sostenuti da regimi fuorilegge, sono sparsi nel mondo come mine vaganti’ (discorso del presidente Bush , Stato dell’Unione, gennaio 2002)

Questa affermazione dell’attuale presidente americano corrisponde al vero, ma dovrebbe ricordarsi, Bush , che una delle peggiori fucine di uomini terrore si trova proprio in America, è parte delle forze armate americane ed è oggi pienamente operativa. È la base americana di Fort Benning , in Geòrgia , che è stata la sede della Scuola delle Americhe, oggi ribattezzata Whisc (Western Hemi- sphere Institute for Security Cooperation). Avrebbe dovuto essere un normale centro di addestramento dedicato alle leve militari dell’America Latina, in realtà dentro la base accadde ben altro. Ne parlo con padre Roy Bourgeois, un veterano del Vietnam che ha conosciuto gli orrori della guerra e che, convertitosi al sacerdozio, denuncia da anni sia la Scuola delle Americhe che la nuova Whisc. «Dentro quella recinzione c’è una fabbrica di morte», mi dice pa dre Roy , che ha voluto realizzare questa intervista proprio di fronte ai cancelli della base, poiché, chiosa il prete, «fa parte della nostra strategia di provocazione pacifica». Bourgeois continua: «Si tratta di una scuola di combattimento che ogni anno addestra circa 1.000 soldati provenienti da 18 paesi latinoamericani in tecniche di commando e controinsurrezione. Questa è una scuola di assassini e di terroristi, da cui sono passati più di 60.000 ufficiali responsabili delle peggiori atrocità commesse in America Latina, e il tutto a spese del contribuente americano».

La lista degli allievi di prestigio della Scuola delle Americhe/Whisc è in effetti scioccante. Vi si trovano uomini che sono stati responsabili di crimini di portata storica, eppure alcuni di essi sono addirittura in bella mostra nella Hall of Fame, i ritratti incorniciati con accanto menzioni d’onore. È il caso di Hugo Banzer Suarez, golpista e torturatore boliviano, cui seguono gli argentini Gualtieri e Viola, gli architetti di 30 mila sparizioni, torture e omicidi, e poi Manuel Noriega, il narcotrafficante e torturatore panamense; ma anche Roberto D’Aubuisson, che a capo delle squadre della morte del Salvador fu il mandante dell’omicidio di monsignor Romero, e i suoi connazionali Rene Mendoza Vallecillos e Ricardo Espinoza Guerra, ufficiali del battaglione Atlacatl delle cui atrocità si è già detto; alla lista si aggiunge il guatemalteco Antonio Callejas y Callejas, capo dell’intelligence e uno dei più feroci torturatori latinoamericani; dall’Honduras sono venuti Juan Melgar Castro, golpista, e quattro dei cinque ufficiali che saranno alla testa del famigerato Battaglione 3-16, quello che con la supervisione dell’attuale ambasciatore americano all’ Onu John Negroponte terrorizzò il paese. E ancora il peruviano Juan Velasco Alvarado, golpista, e dalla Colombia Mauricio Llorente Chavez, Jorge Plazas Acevedo, David Hernandez Rojas e Diego Fino Rodriguez, sotto inchiesta oggi per rapimenti, torture, uccisioni e massacri compiuti fra il 1998 e il ’99. Ma c’è di più. La Scuola delle Americhe/ Whisc ha insegnato il terrorismo e la repressione sfacciatamente, su sette manuali regolarmente stampati nel 1987 da funzionari dell’esercito americano a Panama. Li ho ottenuti: portano titoli asettici, come Analysis I , Counterintelligece , Interrogation o Handling of Sources, ma al loro interno vi si insegna come neutralizzare e cioè ammazzare i bersagli della controinsurrezione o come torturarli, e nella «lista nera» vengono inclusi i leader politici anche solo sospettati di essere ostili alle forze armate. Secondo questi manuali, fra gli insorti da combattere vi sono persone che «possono minacciare il governo attraverso l’uso di elezioni» ( Revolutionary War, Guerrillas and Communist Ideology, p. 51), ma anche coloro che «accusano la polizia di brutalità [… ] che organizzano scioperi [… ] che accusano il governo di corruzione»; vi sono «minoranze, civili e anche bambini che si rifiutano di accogliere le truppe americane o i propri militari» (Combat Intelligence, p. 148). E’ contemplata la tortura, e soprattutto quella psicologica: «II soggetto potrebbe essere convinto che i suoi cari sono sotto torchio e stanno soffrendo. Suggerirgli al momento opportuno che la sua confessione può aiutarli, può essere efficace» (Human Resource Exploitation, p. J-6). E infine, nel manuale Counterintelligence alle pagine 10 e 11 si legge: «In tutti i casi la missione delle forze militari ha priorità sulla sicurezza dei civili della zona». Un dettame, questo, che viola in pieno la Convenzione di Ginevra e che, ricordiamolo, fu scritto e insegnato dagli Stati Uniti d’America.

A David Mac Michael chiedo se sia lecito pensare che questi ma nuali furono il prodotto di agenti deviati all’interno dei servizi americani, o se al contrario c’era una direttiva dall’alto. Risponde lapidario: «No, questi manuali erano ordinaria amministrazione. E una vergogna che il Congresso degli Stati Uniti e la Commissione di Controllo fossero al corrente e abbiano ignorato la cosa fino all’ultimo». La Scuola delle Americhe/ Whisc a Fort Benning continua a operare indisturbata, e mentre nessuno dei suoi funzionari è mai stato posto sotto accusa, ben 167 fra pacifisti, suore e religiosi che hanno manifestato di fronte ai suoi cancelli sono oggi in carcere. Eppure nel gennaio del 2002, di fronte alle Camere riunite, il presidente americano Bush solennemente proclamava: «Prima cosa, di struggeremo i campi di addestramento dei terroristi, gli rovineremo i piani e li porteremo davanti alla giustizia».

Due pesi e due misure

Questo viaggio nel terrorismo praticato, sostenuto o tollerato dalle due grandi democrazie oggi leader della «guerra al terrore» non nasce dalla sterile vis polemica dell’antiamericanismo; il suo senso è, al contrario, quello di suggerire che una lotta contro «l’Asse del Male» che poggia su un evidente sistema morale di due pesi e due misure è destinata ad inquinare fatalmente i valori democratici di tutto l’Occidente e a fallire, generando sempre maggiori atrocità in risposta. Poiché, nelle parole dello storico inglese Mark Curtis, «l’altra metà del mondo, quella che sta fuori dai paesi benestanti, vede chiaramente la nostra ipocrisia secondo cui solo la loro violenza è terrorismo, la nostra mai. E ad essa reagisce con crescente ferocia».

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