Tra l’inquietudine ed il cervello

L'onda - Gustave Courbet 1869

L’onda – Gustave Courbet 1869

ll sognatore non è superiore all’uomo pratico perché il sogno è superiore alla realtà. La superiorità del sognatore consiste nel fatto che sognare è molto più pratico che vivere, e nel fatto che il sognatore trae dalla vita un piacere assai più ampio e più vario dell’uomo di azione. In parole più concrete e dirette: il vero uomo di azione è il sognatore.

Dato che la vita è essenzialmente uno stato mentale, e che le nostre azioni o i nostri sogni sono validi per noi nella misura in cui li consideriamo validi, la valorizzazione dipende da noi.
Il sognatore è un emissore di banconote, e le banconote che egli emette valgono nella città del suo spirito alla stessa stregua delle banconote della realtà. Che importanza ha se le banconote della mia anima non saranno mai convertibili in oro, dal momento che non esiste oro nell’alchimia fittizia della vita? Dopo ciascuno di noi arriva il diluvio, ma soltanto dopo ciascuno di noi. Migliori e più felici sono coloro che, riconoscendo la finzione di tutto, fanno il romanzo prima che esso sia loro fatto e, come Machiavelli, vestono abiti cortigiani per scrivere tranquilli in segreto.

 

Non ho fatto altro che sognare. Questo, e questo soltanto, è sempre stato il senso della mia vita. Non ho mai avuto al tra preoccupazione vera se non la mia vita interiore. I più grandi dolori della mia vita sfumano quando, aprendo la finestra che si affaccia sulla strada del mio sogno e guardando il suo andamento, posso dimenticare me stesso.

Non ho mai voluto essere altro che un sognatore. Non ho mai concesso attenzione a coloro che mi parlavano della vita. Sono appartenuto solo a ciò che non esiste dove io esisto e a ciò che non ho mai potuto essere. Ogni cosa che non è mia, anche la più vile, mi ha sempre parlato con poesia. Non ho mai amato altro che cosa nessuna. Non ho mai desiderato altro se non ciò che non riuscivo neppure a immaginare. Non ho mai chiesto altro alla vita se non che mi passasse accanto senza che io la sentissi. Dall’amore ho preteso soltanto che non cessasse mai di essere un sogno lontano. Perfino nei miei paesaggi interiori, tutti irreali, è sempre stata la lontananza ad attraimi; e il profilo degli acquedotti, nella lontananza di quei paesaggi sognati, aveva la dolcezza del sogno più delle altre parti del paesaggio: una dolcezza che me lo faceva amare. La mania di creare un mondo falso mi accompagna ancora, e mi abbandonerà soltanto alla mia morte. Oggi non metto più in fila nei miei cassetti rocchetti di filo e pedoni di scacchi (con un vescovo o un cavallo che sporgono) ma mi dispiace non farlo… E allineo nella mia immaginazione, come quando d’inverno ci riscaldiamo davanti al caminetto, figure che abitano nella mia vita interióre e sono costanti e vive. Dentro di me ho un mondo fatto di amici con vite proprie, reali, definite e imperfette.

II governo del mondo comincia in noi stessi. Non sono le persone sincere che governano il mondo, ma neppure le persone insincere. Sono coloro che fabbricano in se stessi una sincerità reale con mezzi artificiali e automatici; quella sincerità costituisce la loro forza ed essa brilla nei confronti della sincerità meno falsa degli altri. Saper illudersi bene è la prima qualità di uno statista. Solo ai poeti e ai filosofi compete la visione pratica del mondo, perché soltanto a costoro è concesso di non avere illusioni. Vedere con chiarezza è non agire.

La giornata, in tutta la sua desolazione di nuvole leggere e tiepide, è stata occupata dalla notizia che era scoppiata la rivoluzione. Tali notizie, vere o false, mi riempiono sempre di uno speciale sconforto, unito al disprezzo e alla nausea. Mi ferisce l’intelligenza che qualcuno creda di modificare qualcosa agitandosi. La violenza, di qualsiasi tipo sia, è stata sempre per me una forma stralunata della stupidità umana. E poi tutti i rivoluzionari sono stupidi come lo sono, in grado minore perché in modo meno scomodo, tutti i riformatori.

Rivoluzionario o riformatore: l’errore è lo stesso. Incapace di dominare e di modificare il suo atteggiamento verso la vita, che è tutto, o verso se stesso, che è quasi tutto, l’uomo fugge volendo modificare gli altri e il mondo esterno. Ogni rivoluzionario, ogni riformatore, sono degli evasi. Combattere è non essere capace di combattere se stesso. Riformare significa essere incapace di correggersi.

L’uomo di giusta sensibilità e di integra ragione, quando è preoccupato per il male e per l’ingiustizia del mondo cerca naturalmente di correggerli, specialmente dove il male e l’ingiustizia sono più vicini a lui. Vale a dire dentro se stesso. E questa è un’impresa che occupa la, vita intera.

Per noi tutto consiste nel nostro concetto del mondo. Modificare il nostro concetto del mondo significa modificare il mondo riguardo a noi, significa in altre parole modificare il mondo, perché il mondo non sarà mai per noi altra cosa se non quello che è per noi. Quella giustizia interiore grazie alla quale scriviamo una pagina fluente e bella; quella vera riforma, grazie alla quale rendiamo viva la nostra sensibilità morta: ecco la verità, la nostra verità, l’unica verità. Il mondo è fatto per lo più di paesaggi, di cornici che inquadrano le mostre sensazioni, di rilegature di ciò che pensiamo.

 

La libertà è la possibilità dell’isolamento. Sei libero se puoi allontanarti dagli uomini senza che ti obblighi a cercarli il bisogno di denaro, o il bisogno gregario, o l’amore, o la gloria, o la curiosità, che non si addicono al silenzio e alla solitudine. Se è impossibile per te vivere da solo, sei nato schiavo. Puoi avere ogni grandezza, ogni nobiltà d’animo: sei uno schiavo nobile, o un servo intelligente; non sei libero. E la tragedia non ti riguarda, perché la tragedia del fatto che tu sia nato così non riguarda te ma riguarda soltanto il Destino. Povero te, però, se l’oppressione della vita ti obbliga ad essere schiavo. Povero te se, nonostante tu sia nato libero, capace di bastare a te stesso e di appartarti, la necessità ti costringe a convivere. Questa è la tua tragedia, la tragedia che porti con te.

Il fatto di nascere libero è la maggior grandezza dell’uomo, ciò che rende l’umile eremita superiore ai re e addirittura agli dèi, che sono sufficienti a se stessi per la forza, ma non per il disprezzo di essa.

La morte è una liberazione perché morire è non aver bisogno degli altri. Il povero schiavo si vede affrancato a forza dai piaceri, dalle pene, dalla sua vita amata e ininterrotta. Il re si vede affrancato dai possessi che non voleva lasciare. Le donne che offrivano amore si vedono affrancate dai trionfi che adorano. I vincitori si vedono affrancati dalle vittorie alle quali votarono la vita.

Perciò la morte nobilita, riveste di gale ignote il povero corpo assurdo. Perché in essa c’è un uomo liberato, anche se costui non voleva esserlo. Perché in essa non c’è uno schiavo, anche se costui ha pianto nel perdere la schiavitù. Come un re la cui magnificenza consiste nel suo nome di re, e che può essere risibile in quanto uomo ma è superiore in quanto re, similmente il morto può essere deforme, ma è superiore perché la morte l’ha affrancato.

Stanco, chiudo le imposte delle finestre, escludo il mondo e per un momento posseggo la libertà. Domani sarò di nuovo schiavo; ma ora, solo, senza bisogno di nessuno, con l’unico timore che una voce o una presenza vengano a interrompermi, ho la mia piccola libertà, i miei momenti eccelsi.

Seduto su questa sedia, dimentico la vita che mi opprime. E mi addolora soltanto il fatto che essa mi abbia addolorato.

 

In me l’abitudine e l’attitudine naturale di sognare sono primordiali. Le circostanze della mia vita, il fatto che dalla più tenera infanzia io sia stato un solitario tranquillo, e altre oscure forze ereditarie che da lontano mi hanno plasmato secondo il loro sinistro taglio, hanno fatto del mio spirito un flusso costante di vaneggiamenti. Tutto il mio essere consiste in questo, e perfino ciò che in me sembra più lontano dal sognatore appartiene senza dubbio all’anima di colui che sogna soltanto, elevata al suo grado più alto.

Cercando la maniera migliore, unicamente per il piacere di analizzarmi, vorrei tradurre in parole i processi mentali che in me sono uno solo: quello di una vita dedicata al sogno, di un’anima educata soltanto a sognare.

Osservandomi dal di fuori, come quasi sempre mi osservo, mi sembro incapace di una vita pratica, turbato di dover fare passi e gesti, inabile a parlare con gli altri, privo di lucidità interiore per intrattenermi con ciò che mi impegna lo spirito, e privo di resistenza fisica per applicarmi a un puro meccanismo lavorativo.

È naturale che io sia così. Si capisce che il sognatore sia così. La realtà mi turba. I discorsi degli altri mi provocano un’enorme angustia. La realtà degli altri mi sorprende costantemente. La vasta rete di inconsapevolezze in cui consiste ogni azione che vedo mi sembra un’illusione assurda, senza coerenza plausibile, niente.

Ma sarebbe un errore pensare che io ignoro la morfologia della psicologia altrui, che equivoco la nitida percezione dei motivi e dei più reconditi pensieri degli altri.

Perché io non sono soltanto un sognatore, ma sono esclusivamente un sognatore. L’abitudine di sognare mi ha dotato di una straordinaria nitidezza di visione intcriore. Non solo vedo con incredibile e direi sconcertante esattezza le figure e i décors dei miei sogni, ma vedo con altrettanta esattezza le mie idee astratte, i miei sentimenti umani (ciò che mi resta di essi), i miei impulsi segreti, i miei atteggiamenti psichici nei confronti di me stesso. Affermo che vedo in me le mie stesse idee astratte, le vedo con una visione reale interiore in uno spazio interiore. Riesco a vedere i loro meandri nei più piccoli dettagli.

Perciò io conosco totalmente me stesso e, attraverso questa totale conoscenza, io conosco perfettamente l’umanità. Non esiste un impulso vile o un intuito nobile che non sia stato un lampo nella mia anima; e conosco i gesti con i quali ognuno rivela se stesso. Attraverso i gesti, anche i gesti interiori, io riconosco le idee malvagie, sotto la loro maschera di idee buone o indifferenti. Conosco ciò che in noi cerca di illuderci. E così conosco la maggior parte degli uomini, comprendendoli meglio di quanto loro stessi si comprendano. Spesso mi industrio a scandagliarli, perché in tal modo li faccio miei. Mi impossesso dei processi psichici, poiché per me sognare è possedere. E così si spiega come, essendo un sognatore, io sia dotato di questa capacità di analisi.

 

Nella vita odierna il mondo appartiene agli stolti, agli indifferenti e agli attivisti. Oggi il diritto di vivere e di trionfare si ottiene preticamente con gli stessi requisiti con cui si ottiene il ricovero in un manicomio: l’incapacità di pensare, l’amoralità e l’eccessiva agitazione.

 

La vita sarebbe insopportabile se ne prendessimo coscienza. Per fortuna non lo facciamo. Viviamo con la stessa incoscienza degli animali, nello stesso modo futile e inutile, e se noi anticipiamo la morte (cosa che presumibilmente, anche se non certamente, essi non anticipano) la anticipiamo attraverso tante dimenticanze, tante distrazioni e deviazioni, che possiamo appena dire che ci pensiamo.

Così viviamo, e non è sufficiente a farci ritenere superiori agli animali. La nostra diversità riguardo ad essi consiste nel dettaglio del tutto superficiale del fatto che parliamo e scriviamo, che abbiamo un’intelligenza astratta per distrarci dal fatto di averne una concreta, e che immaginiamo cose impossibili. Tutto ciò, però, sono accidenti del nostro organismo. Il parlare e lo scrivere non apportano nulla di nuovo al nostro istinto primordiale di vivere senza sapere come. La nostra intelligenza astratta serve unicamente ad architettare dei sistemi, o idee che sono dei quasi-sistemi di ciò che negli animali è stare al sole. La nostra immaginazione dell’impossibile non è forse esclusiva; ho visto dei gatti che guardavano la luna, e non so se non la volevano.

Tutto il mondo, tutta la vita, è un vasto sistema di incoscienze che operano attraverso coscienze individuali. Nello stesso modo in cui è possibile ottenere un liquido da due gas facendoli attraversare dalla corrente elettrica, così con due coscienze (quella del nostro essere concreto e quella del nostro essere astratto) si può ottenere un’incoscienza superiore facendo passare attraverso di esse la vita e il mondo.

Felice, dunque, colui che non pensa, poiché realizza per istinto e per destino organico ciò che tutti noi dobbiamo realizzare per perversione e per destino inorganico o sociale. Felice colui che assomiglia al bruto, perché riesce a essere senza sforzo quello che tutti noi siamo con l’imposizione della fatica; poiché sa la strada di casa che noialtri troviamo soltanto attraverso sentieri di finzione e di ritorno; poiché, radicato come un albero, fa parte del paesaggio e dunque della bellezza; e non è, come noi, un mito del paesaggio, una comparsa col vivace costume dell’inutilità e dell’oblio.

Indizi di avere l’illusione: questo e non altro ha la maggioranza degli uomini.

Seguo, in un pensiero di divagazione, la storia comune delle vite comuni. Vedo come gli uomini sono servi del temperamento subconscio, delle altrui circostanze esterne, degli impulsi di convivenza e di non-convivenza che in essi, per essi e con essi urtano come cosa senza importanza.

La lettura dei giornali, sempre penosa dal punto di vista estetico, spesso lo è anche da quello morale, perfino per uno che abbia scarsi scrupoli morali.

Le guerre e le rivoluzioni (ce n’è sempre qualcuna in corso) a forza di leggerne le manifestazioni, non ci provocano più orrore, ma tedio. Non è la crudeltà di tutti quei morti e feriti, il sacrificio di tutti coloro che muoiono in combattimento o vengono uccisi senza combattimento che sono intollerabili; è la stupidità che sacrifica vita e beni a un fine assolutamente inutile. Gli ideali e le ambizioni sono un’allucinazione di comari maschi. Non c’è impero che meriti che per esso venga rotta la bambola di un bambino. Non c’è ideale che meriti il sacrificio di un trenino di latta. Quale impero è utile e quale ideale è proficuo? Tutto dipende dall’umanità, e l’umanità è sempre la stessa: mutabile ma non migliorabile, oscillante ma non progressiva. Di fronte al corso sordo delle cose, alla vita che abbiamo ricevuto senza sapere come e che perderemo senza sapere quando; di fronte al gioco dei diecimila scacchi della vita in comune e delle sue lotte, di fronte al tedio di osservare inutilmente ciò che non si realizza mai […] che altro può fare il saggio se non chiedere il riposo, e non avere l’obbligo di pensare alla vita, visto che è sufficiente dover vivere, basta un posto al sole e all’aria e l’illusione che ci sia la pace di là dai monti.

 

L’esperienza diretta costituisce il sotterfugio o il nascondiglio di coloro che sono sprovvisti di immaginazione. Leggendo i rischi che ha corso un cacciatore di tigri, posseggo il quoziente di rischio che valeva la pena di correre, salvo quello dello stesso rischio, che non valeva tanto la pena di correre, che è passato.

Gli uomini di azione sono gli schiavi involontari degli uomini d’intelletto. Le cose non valgono se non nella loro interpretazione. Alcuni, dunque, creano cose affinchè gli altri, convertendole in significato, le rendano esistenze. Narrare è creare, perché vivere è soltanto essere vissuto.

Non subordinarsi a niente, né a un uomo né a un amore né a un’idea; avere quell’indipendenza distante che consiste nel diffidare della verità e, ammesso che esista, dell’utilità della sua conoscenza: tale è lo stato in cui, credo, deve organizzarsi la profonda vita intellettuale di coloro che vivono pensando. Appartenere: ecco la banalità. Fede, ideale, donna o professione: ecco la prigione e le catene. Essere è essere libero. Perfino l’ambizione, se è vano orgoglio e passione, è un fardello, non saremmo orgogliosi se ci rendessimo conto che èssa è uno spago attraverso il quale siamo manovrati. No: niente legami, neppure con noi stessi! Liberi da noi stessi e dagli altri, contemplativi privi di estasi, pensatori privi di conclusione, vivremo, liberi da Dio, il piccolo intervallo che le distrazioni dei carnefici concedono alla nostra estasi da cortile. Domani ci aspetta la ghigliottina. Se non sarà domani sarà dopodomani. Portiamo a spasso sotto il sole il riposo che precede la fine, ignorando volontariamente propositi e persecuzioni. Il sole indorerà le nostre fronti senza rughe e la brezza sarà fresca per colui che cesserà di sperare.

Faccio rotolare la penna sulla scrivania ed essa rotola e ritorna, senza che io la prenda, lungo il piano inclinato sul quale lavoro.

Ho sentito tutto all’improvviso. E la mia allegria si manifesta attraverso questo gesto di rabbia che non sento.

Non amiamo mai nessuno. Amiamo solamente l’idea che ci facciamo di qualcuno. È un nostro concetto (insomma, noi stessi) che amiamo.

Questo discorso vale per tutta la gamma dell’amore. Nell’amore sessuale cerchiamo il nostro piacere ottenuto attraverso un corpo estraneo. Nell’amore che non è quello sessuale cerchiamo un nostro piacere ottenuto attraverso un’idea nostra. L’onanista è un essere abietto ma, in verità, è la perfetta espressione logica dell’amante. È l’unico che non finge e non si sbaglia.

I rapporti fra un’anima e l’altra, attraverso cose tanto incerte e divergenti come le parole comuni e i gesti che si intraprendono, sono materia di strana complessità. Perfino l’arte, nella quale si realizza la conoscenza di noi stessi, è una forma di ignoranza. Due persone dicono reciprocamente “ti amo”, o lo pensano, e ciascuno vuol dire una cosa diversa, una vita diversa, perfino forse un colore o un aroma diverso, nella somma astratta di impressioni che costituisce l’attività dell’anima.

 

Non conclamo ad alta voce la mia convinzione sulla felicità degli animali se non quando ho voglia di parlarne come cornice di un sentimento che è messo in risalto dalla sua potenzialità. Per essere felici bisogna sapere che si è felici. Non c’è felicità nel dormire senza sogni, ma soltanto nello svegliarsi sapendo che abbiamo dormito senza sogni. La felicità è fuori dalla felicità.

Non c’è felicità se non con consapevolezza. Ma la consapevolezza della felicità è infelice, perché sapersi felice è sapere che si sta attraversando la felicità e che si dovrà subito lasciarla. Sapere è uccidere, nella felicità come in tutto. Non sapere, però, è non esistere.

Solo l’assoluto di Hegel è riuscito, sulla pagina, ad essere due cose allo stesso tempo. Il non-essere e l’essere non si fondono e si confondono nelle sensazioni e nelle ragioni della vita: si escludono, per una sintesi alla rovescia.

Che fare? Isolare il momento come una cosa ed essere felice ora, nel momento in cui si sente la felicità, non pensando ad altro che a ciò che si sente, escludendo il resto, escludendo tutto? Ingabbiare il pensiero nella sensazione […].

[…] il chiaro sorriso materno della terra piena, lo splendore chiuso delle tenebre alte, […].

Questa è la mia fede, stasera. Domattina sarà diversa, perché domattina sarò già un altro. Quale credo avrò domani? Non lo so, perché bisognerebbe che fosse domani per saperlo. Nemmeno il Dio eterno in cui oggi credo può saperlo, né domani né oggi, perché oggi io sono io e domani egli forse non sarà mai esistito.

L’inazione consola di ogni cosa. Non agire ci da tutto. Immaginare è tutto, purché non tenda all’azione. Nessuno può essere re del mondo se non in sogno. E ognuno di noi, se si conosce veramente, vuole essere re del mondo.

Non essere e pensare è il trono. Non volere e desiderare è la corona. Avremo ciò a cui rinunciamo perché, sognando, lo conserviamo intatto.

Avere opinioni definite e sicure, istinti, passioni e un carattere stabile e conosciuto provoca questa barbarie: che la nostra anima si trasforma in un fatto, si materializza e diventa esterna. Vivere è un dolce e fluido stato di ignoranza delle cose e di se stesso (è l’unico modo di vita che si addice al saggio e che lo conforta).

Il più alto grado di sapienza e prudenza è sapere frapporsi costantemente fra se stesso e le cose.

La nostra personalità deve essere inviolabile, anche da parte di noi stessi: da ciò il nostro dovere di sognare sempre e di includerci nei nostri sogni affinchè non ci sia possibile avere opinioni sul nostro conto.

E soprattutto dobbiamo evitare l’invasione della nostra personalità da parte degli altri. Ogni interesse degli altri è un’indicibile indelicatezza nei nostri confronti. Ciò che impedisce che il banale saluto (come va?) sia un’imperdonabile grossolanità è il fatto che esso di norma è assolutamente vano e insincero.

Amare è stancarsi di essere solo: è dunque una vigliaccheria e un tradimento verso noi stessi (è sovranamente importante non amare).

Dare buoni consigli significa mancare di rispetto alla facoltà di sbagliare che Dio ha dato a tutti noi. E poi le azioni altrui devono avere il vantaggio di non essere uguali alle nostre. È comprensibile solo chiedere consigli agli altri: affinchè possiamo sapere, agendo in modo opposto, chi siamo esattamente noi, assolutamente in disaccordo con l’Alterità.

 

II tedio di Khayyam non è il tedio di colui che non sa cosa fare, poiché in realtà non può o non sa fare nulla. Questo è il tedio di coloro che sono nati morti e di coloro che giustamente si danno alla morfina o alla cocaina. È più profondo e più nobile il tedio del saggio persiano. È il tedio di colui che la pensato lucidamente e ha visto che tutto era oscuro; di colui che ha misurato tutte le religioni e tutte le filosofie e poi ha detto, come Salomone: Ho visto che tutto era vanità e tormenti dell’animo, o come, nell’accomiatarsi dal potere e dal mondo, un altro monarca, imperatore del mondo, Settimo Severo: Omnia fui, nihil…Sono stato tutto; niente vale la pena.

La vita, disse Tarde, è la ricerca dell’impossibile attraverso l’inutile; così avrebbe detto, se lo avesse detto, Ornar Khayyam.

Da ciò l’insistenza del persiano nell’uso del vino. Bevi! Bevi!, è tutta la sua filosofia pratica. Non è il bere dell’allegria, che beve per rallegrarsi di più, per essere più se stessa. Non è il bere della disperazione che beve per dimenticare, per essere meno se stessa. L’allegria aggiunge al vino l’azione e l’amore; e dobbiamo osservare che non c’è in Khayyam alcuna nota di energia, alcuna frase di amore. Quella Sàki, la cui gracile figura compare (ma compare poco) neiRubayat, non è altro che la ragazza che serve il vino. Il poeta è grato alla sua eleganza come lo sarebbe all’eleganza dell’anfora dove è contenuto il vino.

La filosofia pratica di Khayyam si riduce dunque a un dolce epicureismo, sfumato fino al minimo del desiderio di piacere. Gli basta di vedere rose e di bere vino. Una brezza leggera, una conversazione senza finalità e necessità, una brocca di vino, dei fiori, in questo e in nient’altro che questo il saggio persiano fa consistere il suo massimo desiderio. L’amore agita e stanca, l’azione sbaglia e inganna, nessuno sa sapere, e il pensare appanna tutto. È meglio dunque cessare di desiderare o di sperare che avere la futile pretesa di spiegare il mondo o il proposito stolto di correggerlo o di governarlo. Tutto è nulla o, come viene detto nell’Antologia Greca, tutto proviene dalla non-ragione. Ed è proprio un greco, e cioè un razionalista, a dirlo.

 

Osservo attentamente l’uomo e mi accorgo che è incosciente come un cane o un gatto; parla per un’inconsapevolezza di un altro tipo; si organizza in società per un’inconsapevolezza di un altro tipo, assolutamente inferiore all’ordine sociale delle formiche e delle api. E allora l’intelligenza che crea e impregna il mondo mi si rivela attraverso una luce evidente più che attraverso l’esistenza di organismi, più che attraverso l’esistenza di rigide leggi fisiche o intellettuali.

Mi sovviene-allora, ogni volta che sento così, la vecchia frase di non so quale scolastico: Deus est anima brutorum, Dio è l’anima dei bruti.L’autore di questa meravigliosa frase ha inteso spiegare in tal modo la sicurezza con la quale l’istinto guida gli animali inferiori, quelli che non posseggono l’intelligenza o ne posseggono solo un abbozzo. Ma siamo tutti animali inferiori; parlare e pensare sono soltanto nuovi istinti, meno sicjuri degli altri perché nuovi.

L’ironia è il primo indizio del fatto che la coscienza è diventata cosciente. E l’ironia attraversa due stadi: lo stadio segnato da Socrate quando disse so solo di non sapere niente, e lo stadio segnato da Sanches quando disse non so nemmeno se non so niente. Il primo passo arriva a quel punto in cui dubitiamo di noi dogmaticamente, ed ogni uomo superiore riesce a compiere questo passo. Il secondo passo arriva fino al punto in cui dubitiamo di noi e del nostro dubbio, e pochi uomini l’hanno raggiunto nel breve e pur già così lungo spazio del tempo in cui, in quanto umanità, abbiamo visto il sole e la notte affacciarsi su questa terra.

Conoscersi è errare, e l’oracolo che disse “conosci te stesso” propose una fatica più grande di quelle di Èrcole e un enigma più oscuro di quello della Sfinge. Disconoscersi coscientemente è l’utilizzazione attiva dell’ironia. Né conosco nessun’altra cosa più grande né più propria dell’uomo, che è davvero grande, dell’analisi paziente ed espressiva dei nostri modi di disconoscere il registro cosciente dell’incoscienza delle nostre coscienze, la metafisica delle ombre autonome, la poesia del crepuscolo della disillusione.

Ma sempre qualcosa ci illude, sempre ogni analisi si appanna, sempre la verità, anche se falsa, è dietro l’altro angolo. Ed è questo che stanca più della vita, quando essa stanca, e della sua conoscenza e meditazione, che non cessano mai di stancare.

Se osservo con attenzione la vita che gli uomini vivono, non vi trovo nulla che la distingua dalla vita che vivono gli animali. Gli uni e gli altri vengono lanciati privi di consapevolezza attraverso le cose e il mondo; gli uni e gli altri si baloccano con intervalli; gli uni e gli altri percorrono quotidianamente lo stesso itinerario organico; gli uni e gli altri non pensano più di quanto pensano e non vivono più di quanto vivono. Il gatto ruzzola al sole e poi si addormenta. L’uomo ruzzola nelle complessità della vita e vi si addormenta. Nessuno dei due si libera dalla legge fatale di essere come è. Nessuno dei due tenta di alzare il peso di essere. I più grandi uomini amano la gloria, ma la amano non come una loro immortalità, ma come un’immortalità astratta della quale forse non partecipano.

Queste considerazioni, che faccio di frequente, mi portano a un’improvvisa ammirazione per quegli individui che istintivamente detesto. Mi riferisco ai mistici e agli asceti: ai solitari di ogni Tibet, ai Simeoni Stiliti di ogni colonna. Costoro, anche se in modo assurdo, tentano in realtà di liberarsi dalla legge animale. Costoro, anche se nella follia, tentano in realtà di negare la legge della vita, il rotolarsi al sole e l’attesa della morte senza pensare ad essa. Cercano, anche se in cima a una colonna; anelano, anche se in una cella senza luce; vogliono ciò che non conoscono, anche se nel martirio subito, e nel dolore imposto.

Noi altri, che viviamo come animali con maggiore o minore complessità, attraversiamo il palco come comparse che non parlano, contenti della solennità vanitosa del tragitto. Cani e uomini, gatti ed eroi, pulci e geni, giochiamo all’esistere, senza pensarci (poiché i migliori pensano soltanto a pensare) sotto la grande quiete delle stelle. Gli altri (i mistici del dolore e del sacrificio) sentono almeno, nel corpo e nella quotidianità, la presenza magica del mistero. Sono liberi, perché negano il sole visibile; sono pieni, perché si sono svuotati del vuoto del mondo.

 

II mondo è di chi non sente. La condizione essenziale per essere un uomo pratico è la mancanza di sensibilità. La qualità principale nella pratica della vita è quella qualità che conduce all’azione, cioè la volontà. Or dunque ci sono due | cose che disturbano l’azione: la sensibilità e il pensiero analitico, il quale ultimo non è altro, in fin dei conti, che il pensiero dotato di sensibilità. Ogni azione è, per sua natura, la proiezione della personalità sul mondo esterno. E siccome il mondo esterno è in grande parte composto da esseri umani, finisce che la proiezione della personalità consiste essenzialmente nel mettersi di traverso sulla strada altrui, nell’ostacolare, nel ferire e nello schiacciare gli altri, a seconda del nostro modo di agire.

Per agire, dunque, è necessario che non immaginiamo con facilità la personalità degli altri, i loro dolori e le loro allegrie. Chi ha della simpatia non agisce. L’uomo di azione considera il mondo esterno come se fosse composto esclusivamente di materia inerte; inerte in se stessa, come un sasso che calpesta o che allontana dalla strada, o inerte come un essere umano che, non avendo potuto offrirgli resistenza, tanto fa che sia uomo o sasso — perché come il sasso è stato preso a calci o calpestato.

Ogni uomo di azione è essenzialmente animoso e ottimista, perché chi non ha sentimenti è felice. Un uomo di azione è riconoscibile dal fatto che non è mai di cattivo umore. Chi riesce a lavorare anche quando è di cattivo umore, è un sussidiario dell’azione; nella vita, nella grande generalità della vita, può essere un contabile, come io lo sono nella particolarità della vita. Ma non può governare le cose o gli uomini. Il governo presuppone l’insensibilità. Governa colui che è allegro, perché per essere triste bisogna sentire.

Più contemplo lo spettacolo del mondo e il flusso e riflusso della mutazione delle cose, più profondamente mi convinco della intrinseca finzione di tutto, del prestigio falso delle apparenze reali. E come sarà capitato a tutti coloro che riflettono, l’incedere multicolore dei costumi e delle mode, il complicato percorso del progresso e della civiltà, la confusione grandiosa degli imperi e delle culture mi sembrano un mito e una finzione sognati fra ombre e oblio. Non so se la migliore definizione di queste imprese inutili (inutili anche quando sono coronate di successo) sia da cercarsi nell’immobile ascesi del Budda, il quale nel capire la vacuità delle cose si alzò dalla sua estasi dicendo “ormai so tutto”; oppure nell’indifferenza estenuata dell’imperatore Severo: “omnia fui, nihil expedit”. Sono stato tutto, niente vale la pena.

Ogni uomo che sia degno di essere uomo desidera vivere la vita in Modo Estremo. Contentarsi di quanto ci è dato è proprio degli schiavi. Chiedere di più è proprio dei bambini. Conquistare di più è proprio dei pazzi, poiché ogni conquista è […].

Vivere la vita in Modo Estremo significa viverla fino al limite, ma ci sono tre modi di farlo e ogni anima superiore deve sceglierne uno. Si può vivere la vita all’Estremo attraverso il suo possesso estremo, attraverso il viaggio di Ulisse, attraverso tutte le sensazioni vissute, attraverso tutte le forme di energia esteriorizzata. Però in ogni epoca della Storia sono pochi coloro che possono chiudere gli occhi con una stanchezza che sia la somma di tutte le stanchezze; coloro che hanno posseduto tutto in tutti i modi.

Sono rari dunque coloro che possono esigere e ottenere dalla vita che essa si abbandoni loro corpo e anima; che sanno non essere gelosi della vita perché sanno avere per lei un completo amore. Eppure questo deve essere, senz’altro, il desiderio di ogni anima elevata e forte. Però quando quell’anima constata che ogni realizzazione le è impossibile, che le manca la forza di conquistare tutte le parti del Tutto, le restano due strade da seguire. La prima è l’abdicazione totale, l’astensione formale e completa, relegando alla sfera della sensibilità ciò che non si può possedere pienamente nella sfera dell’attività e dell’energia. È mille volte preferibile non agire che agire inutilmente, frammentariamente, insufficientemente, come succede alla superflua e vana maggioranza degli uomini. L’altra è la strada del perfetto equilibrio, la ricerca del Limite nella Proporzione Assoluta; strada attraverso la quale l’ansia di Estremo transita dalla volontà e dall’emozione fino all’Intelligenza. E in questo caso l’ambizione non è di vivere tutta la vita, e di sentire tutta la vita, ma di ordinare tutta la vita, di realizzarla in Armonia e Coordinazione intelligente.

L’ansia di capire, che per molte anime nobili sostituisce l’ansia di agire, appartiene alla sfera della sensibilità. Sostituire l’Intelligenza all’energia, rompere l’anello fra la volontà e l’emozione, spogliando d’interesse tutti i gesti della vita materiale: questo vale più della vita, che è così difficile da possedere completamente e così triste da possedere parzialmente.

Dicevano gli argonauti che navigare è necessario ma che vivere non è necessario. Noi, argonauti della sensibilità estenuata, diciamo che sentire è necessario ma che non è necessario vivere.

Un commento a “Tra l’inquietudine ed il cervello”

  1. Fabrizio ha detto:

    Meraviglioso, incondizionato, estremo, libero, sognatore.

    Grazie.

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