Energofascismo

petrolioTra i sempre meno numerosi sostenitori della guerra in Iraq è tornato di moda sottolineare il pericolo dell'”islamofascismo” e del presunto desiderio dei seguaci di Osama bin Laden di instaurare un regime in stile talebano – un “califfato” – da Gibilterra all’Indonesia. Negli ultimi anni lo stesso presidente George W. Bush ha usato diverse volte il termine islamofascismo per descrivere i tentativi degli estremisti musulmani di creare “un impero totalitario che nega ogni libertà politica e religiosa”. Anche se probabilmente ci sono centinaia, o forse anche migliala, di individui squilibrati e pronti a sacrificarsi per questa visione delirante, in realtà il mondo si trova di fronte a un pericolo molto più concreto e universale: l’energofascismo. Con questo termine intendo la militarizzazione della lotta globale per il controllo di risorse energetiche sempre più scarse.

L’energofascismo è destinato a influire sulla vita di quasi tutti gli abitanti del pianeta. Saremo costretti a finanziare o a partecipare alle guerre per la conquista di risorse energetiche vitali, come quella in corso in Iraq. Oppure dipenderemo interamente da chi controlla le fonti di energia, come i clienti del gigante russo Gazprom in Ucraina, Bielorussia e Geòrgia. O ancora, potremmo trovarci prima o poi sotto la continua sorveglianza dello stato, attento a evitare che il nostro consumo energetico superi determinate quote e a scongiurare possibili traffici illeciti. Non è solo un incubo futurista, ma una realtà che presto potrebbe coinvolgerci tutti e che sta già emergendo, senza che quasi nessuno se ne accorga.
Ecco alcuni dei suoi elementi fondamentali.

1. La trasformazione dell’esercito statunitense in una forza globale di protezione del petrolio con il compito di difendere le riserve di greggio e di gas naturale a cui attingono gli Stati Uniti, e di pattugliare i più importanti oleodotti e le maggiori linee di rifornimento del mondo.

2. La trasformazione della Russia in una superpotenza energetica che controlla le maggiori riserve di petrolio e di gas naturale dell’Eurasia, decisa a usare questo vantaggio per esercitare una influenza politica sempre maggiore su tutti gli stati vicini.

3. La lotta spietata tra le grandi potenze per il controllo delle riserve di petrolio, gas naturale e uranio in Africa, America Latina, Medio Oriente e Asia. Questa lotta comprende interventi militari ricorrenti, l’incessante creazione e sostituzione di regimi satellite, la corruzione e la repressione sistematiche, il continuo impoverimento della stragrande maggioranza delle popolazioni che vivono nelle regioni ricche di fonti energetiche.

4. L’intrusione e il controllo dello stato sulla vita pubblica e privata a causa della sempre maggiore dipendenza dall’energia atomica. Il ricorso al nucleare aumenterà infatti il rischio di atti di sabotaggio, di incidenti e di traffici illeciti di materiale fissile.

La domanda e l’offerta

L’origine dell’energofascismo si può far risalire ad altri due fenomeni: l’imminente squilibrio tra la domanda e l’offerta di energia, e lo storico spostamento della produzione di energia dal nord al sud del pianeta.

Negli ultimi sessant’anni l’industria energetica internazionale è riuscita a soddisfare la crescente fame di combustibile del mondo. Dal 1955 al 2005 la domanda globale di petrolio è passata da 15 a 82 milioni di barili al giorno, un aumento del 450 per cento. In questo stesso periodo la produzione è cresciuta di pari passo. Si prevede che la domanda di energia a livello mondiale continuerà ad aumentare alla stessa velocità, se non più rapidamente, ancora per molti anni, stimolata dallo sviluppo della Cina, dell’India e di altri paesi emergenti. Ma la produzione non riuscirà a stare al passo.

Al contrario, molti esperti sono convinti che la produzione di greggio “convenzionale” (liquido) presto raggiungerà il suo picco massimo – forse già nel 2010 o nel 2015 – e poi comincerà un declino irreversibile. Le scorte mondiali di altri tipi di combustibili importanti – come il gas naturale, il carbone e l’uranio – si ridurranno più lentamente, ma non sono infinite e prima o poi cominceranno a scarseggiare. Il carbone è la risorsa più abbondante: se si continua a consumarlo alla velocità attuale potrà durare forse un altro secolo e mezzo. Ma se verrà usato per sostituire il petrolio, sparirà molto più rapidamente. Questo, naturalmente, senza tenere conto del contributo del carbone al riscaldamento globale: se non cambierà il modo in cui viene bruciato nelle centrali elettriche, il pianeta diventerà invivibile molto prima che l’ultima miniera di carbone si esaurisca.

Il gas naturale e l’uranio dureranno dieci o vent’anni più del petrolio, ma anch’essi alla fine raggiungeranno il culmine della produzione e cominceranno a scarseggiare. Il gas naturale si esaurirà, come il petrolio. La scarsità di uranio, invece, potrà essere superata attraverso un uso più intenso di “reattori autofertilizzanti”, che generano plutonio come prodotto secondario. Ma l’aumento dell’uso del plutonio aumenterebbe il rischio di proliferazione nucleare, rendendo il mondo più pericoloso e spingendo i governi ad aumentare il controllo su tutti gli aspetti della produzione e del commercio di energia nucleare.

Queste prospettive preoccupano i leader dei principali paesi consumatori di energia, soprattutto gli Stati Uniti, la Cina, il Giappone e le nazioni europee. Negli ultimi anni questi paesi hanno modificato notevolmente la loro politica energetica, e sono tutti arrivati alla stessa conclusione: non si può più contare solo sulle forze di mercato per soddisfare le richieste di energia a livello nazionale, e di conseguenza lo stato deve assumersi la responsabilità di svolgere questo ruolo. È una delle cause dell’emergere dell’energofascismo.
Un’altra è la nuova geografia della produzione energetica. Un tempo la maggior parte delle fonti di petrolio e di gas naturale del mondo si trovava in Nordamerica, in Europa e nella parte europea dell’impero russo. Non era un caso: le principali industrie energetiche preferivano operare in paesi ospitali, non troppo lontani, relativamente stabili e poco disposti a nazionalizzare i giacimenti privati. Ma quei giacimenti ormai sono quasi completamente esauriti e le uniche regioni ancora in grado di soddisfare la richiesta globale si trovano in Africa, in Asia, in America Latina e in Medio Oriente.

Queste regioni sono state quasi tutte soggette al dominio coloniale e sono profondamente diffidenti nei confronti degli stranieri. In molti paesi ci sono gruppi etnici separatisti, insurrezioni o movimenti estremistici che li rendono particolarmente inospitali per le compagnie petrolifere straniere. Se al risentimento della popolazione si aggiunge la mancanza di sicurezza e un regime spesso instabile, è comprensibile che i leader dei principali paesi consumatori stiano cercando di prendere il controllo della situazione. Lo fanno stringendo accordi preventivi con autorità locali compiacenti e, quando è necessario, offrendo in cambio la loro protezione militare per garantire che il petrolio e il gas arrivino sani e salvi a destinazione.

In molti casi questo ha portato i principali paesi consumatori a instaurare delle specie di protettorati sui loro maggiori fornitori di petrolio, come quello ormai consolidato degli Stati Uniti sull’Arabia Saudita e il più recente accordo tra gli Stati Uniti e il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliev. La militarizzazione della politica energetica dei paesi consumatori e il potenziamento della capacità repressiva dei regimi satellite costituiscono le basi dell’energofascismo mondiale.

La dottrina Carter

L’espressione più significativa di questa tendenza è stata la trasformazione dell’esercito degli Stati Uniti in una forza globale di protezione del petrolio. La sua funzione principale è ormai fare la guardia alle risorse energetiche straniere e ai loro sistemi di distribuzione (oleodotti, petroliere e linee di rifornimento). Questa missione fu delineata per la prima volta dal presidente Jimmy Carter nel gennaio del 1980, quando definì il flusso di petrolio dal golfo Persico “un interesse vitale” degli Stati Uniti. Carter affermò che Washington avrebbe usato “tutti i mezzi necessari, compresa la forza militare” per sventare qualsiasi tentativo di bloccare quel flusso da parte di una potenza ostile. Adesso si ritiene che il maggiore pericolo per il petrolio proveniente dal golfo Persico sia costituito dall’Iran. Teheran ha minacciato di fermare il passaggio delle petroliere attraverso lo stretto di Hormuz (l’imboccatura del golfo) in caso di un attacco aereo americano contro i suoi impianti nucleari.

Quando fu enunciata per la prima volta, la dottrina Carter mirava essenzialmente a difendere il golfo Persico e le acque circostanti. Negli ultimi anni, tuttavia, i politici statunitensi sono arrivati alla conclusione che gli Stati Uniti devono estendere la loro protezione a tutte le principali regioni produttrici di petrolio nel mondo in via di sviluppo.
Questo modo di pensare, condiviso da democratici e repubblicani, ha governato le scelte strategiche di Washington dalla fine degli anni novanta. Il presidente Bill Clinton è stato il primo a estendere la dottrina Carter, dichiarando che il flusso di petrolio e di gas dal mar Caspio all’occidente era una priorità per la sicurezza degli Stati Uniti. Per questo motivo ha stretto rapporti militari con i governi dell’Azerbaigian, della Geòrgia, del Kazakistan, del Kirghizistan e dell’Uzbekistan.

Più di recente, il presidente George W. Bush ha esteso la portata della dottrina Carter all’Africa occidentale, che oggi è una delle principali fonti di petrolio per gli Stati Uniti. Particolarmente importante da questo punto di vista è la Nigeria, dove la produzione si è notevol mente ridotta a causa dei disordini nella regione del delta del Niger. Per scongiurare un’interruzione dei rifornimenti, il dipartimento della difesa statunitense sta fornendo consistenti aiuti militari all’esercito nigeriano e sta collaborando al pattugliamento del golfo di Guinea. Naturalmente le autorità statali e i responsabili della politica estera di solito sono restii ad ammettere motivazioni così prosaiche per l’uso della forza militare. Preferiscono parlare di esportazione della democrazia e di lotta al terrorismo. Gli Stati Uniti sostengono di difendere le riserve di petrolio “nell’interesse” della comunità mondiale. Ma questo atteggiamento di apparente altruismo non tiene conto di alcuni aspetti cruciali.

Primo, gli Stati Uniti sono i maggiori consumatori mondiali di petrolio: un barile su quattro è destinato a loro.

Secondo, i soldati e i marinai statunitensi proteggono soprattutto gli oleodotti e le rotte marittime che vanno verso gli Stati Uniti e i loro più stretti alleati, come il Giappone e i paesi della Nato.

Terzo, nelle regioni più turbolente l’esercito degli Stati Uniti protegge di solito gli impianti delle imprese americane, a rischio della vita del personale coinvolto.
Quarto, uno dei maggiori consumatori mondiali di petrolio è proprio il Pentagono: nel 2005 ha usato 134 milioni di barili, quanto l’intera Svezia.

Quindi, anche se è vero che altri paesi possono approfittarne, l’attività dei militari americani avvantaggia soprattutto le grandi aziende e l’economia degli Stati Uniti. Le sue vittime principali sono i soldati statunitensi che ogni giorno rischiano la vita per difendere gli oleodotti e le raffinerie, i poveri di quei paesi che non ricavano quasi niente dall’estrazione delle loro risorse naturali, e l’ambiente del pianeta.

I costi di questa immensa impresa, in termini di sangue e di denaro, sono enormi e in continuo aumento. Prima di tutto c’è la guerra in Iraq, che indubbiamente è stata scatenata anche in base alla dottrina Carter. Ci sono molte ragioni per attaccare l’Iran, ma un’eventuale offensiva nasconderebbe lo stesso obiettivo: proteggere il flusso di greggio proveniente dal golfo Persico. E ci saranno sicuramente altre guerre per il petrolio, con altre vittime da ogni parte della barricata.

Escludendo dal conto la guerra in Iraq, gli Stati Uniti spendono intorno ai cento miliardi di dollari all’anno – circa un quarto del bilancio della loro difesa – per il golfo Persico. Se poi si tengono in considerazione le spese sostenute finora per il conflitto iracheno – circa mille miliardi – bisognerebbe aggiungere al conto diverse centinaia di miliardi di dollari. Senza contare quelli destinati alla difesa degli oleodotti e delle rotte delle petroliere nell’oceano Indiano, nel Pacifico, nel golfo di Guinea, in Colombia e nella regione del Caspio.

In futuro questi costi aumenteranno enormemente. Gli Stati Uniti dovranno contare sempre di più sul petrolio del sud del mondo, affrontando due fenomeni: la resistenza delle popolazioni locali allo sfruttamento dei giacimenti e la competizione con la Cina e l’India per il controllo delle fonti energetiche. È facile prevedere che i responsabili della politica estera statunitense ricorreranno sempre più spesso all’esercito per superare la resistenza delle popolazioni interessate. I costi di queste iniziative imporranno un aumento delle tasse o una riduzione dei servizi sociali negli Stati Uniti, o entrambe le cose. Non solo: a un certo punto il bisogno di uomini per sorvegliare giacimenti, raffinerie, oleodotti e rotte marittime potrebbe portare alla reintroduzione della leva militare obbligatoria. Una misura simile provocherebbe una forte opposizione interna, che a sua volta potrebbe scatenare un’ondata di repressione da parte del governo.

Le due facce

Con la domanda di energia in continuo aumento e la contrazione dell’offerta (o almeno la sua incapacità di stare al passo), il mondo si sta dividendo sempre più nettamente in due, tra chi ha fonti d’energia e chi non ne ha. Da una parte ci sono i paesi che hanno sufficienti riserve interne (una combinazione di petrolio, gas, carbone, energia idroelettrica, uranio e fonti alternative) per soddisfare le proprie esigenze ed essere in grado di esportare energia. Dall’altra ci sono quelli che non hanno riserve e devono compensare questa mancanza con costose importazioni.

Dal 1950 al 2000, quando l’energia era abbondante e a buon prezzo, questa distinzione non sembrava così importante. Bastava poter contare su altri tipi di risorse: un’immensa ricchezza (come il Giappone); armi nucleari (come la Gran Bretagna e la Francia); o amici potenti (come i paesi della Nato e del Patto di Varsavia). Inutile dire che per chi non possedeva nessuna di queste risorse, non avere energia era un problema anche allora e contribuiva pesantemente alla crisi del debito che ancora affligge molti paesi. Oggi la distinzione tra i paesi che hanno fonti energetiche e quelli che non ne hanno è diventata più significativa, anche per nazioni ricche e potenti come gli Stati Uniti e il Giappone.

I paesi ricchi di energia sono pochissimi. I più importanti sono l’Australia, il Canada, l’Iran, il Kazakistan, il Kuwait, la Nigeria, il Qatar, la Russia, l’Arabia Saudita, il Venezuela, l’Iraq (se non ci fosse la guerra) e pochi altri. Sono in una posizione invidiabile perché non devono pagare prezzi stratosferici per importare il petrolio e il gas naturale. Anzi possono divertirsi a mettere un paese contro l’altro, come ha imparato a fare il presidente del Kazakistan Nursultan Nazarbaev, che va regolarmente in visita a Washington e a Pechino.
Spinta agli estremi, questa tendenza può portare a vere forme di condizionamento politico: il venditore decide di fornire petrolio e gas naturale solo se l’acquirente accetta determinate richieste politiche. Nessun paese ha abbracciato questa strategia con maggior vigore ed entusiasmo della Russia del presidente Vladimir Putin.

La superpotenza energetica

Alla fine della guerra fredda la Russia sembrava ormai una ex superpotenza disperata e distrutta, fiaccata nello spirito, senza più né ricchezza né influenza. Per anni è stata trattata con disprezzo dalle autorità statunitensi. I suoi leader sono stati costretti a sopportare accordi umilianti come l’allargamento della Nato ad alcuni paesi dell’Europa orientale, fino a poco tempo prima satelliti di Mosca, e l’abrogazione del Trattato per la messa al bando dei missili antibalistici. Agli occhi di molti americani, la Russia era poco più che un cimelio storico, una potenza del passato che non avrebbe mai più svolto un ruolo significativo nello scacchiere internazionale.

Ma oggi è Mosca, e non Washington, ad avere il coltello dalla parte del manico. Forse la Russia non è più una superpotenza militare ma, con il controllo delle grandi riserve di gas naturale e di carbone dell’Eurasia e le sue enormi riserve di petrolio e uranio, è comunque una superpotenza.

È la regina assoluta dei paesi produttori di gas naturale. Secondo la Bp (l’ex British petroleum), la Russia possiede sei milioni di miliardi di metri cubi di riserve di gas accertate, il 27 per cento delle riserve mondiali. Questo dato è più importante di quanto possa sembrare perché il gas naturale copre il 34 per cento del fabbisogno energetico dell’Europa e dell’ex Unione Sovietica, una quota più alta che in qualsiasi altra regione del mondo. In Nordamerica, dove il petrolio è la fonte di energia principale, il gas naturale costituisce solo il 25 per cento del totale. Dato che la Russia è di gran lunga il maggior fornitore di gas dell’Eurasia, si trova in una posizione di dominio paragonabile solo a quella dell’Arabia Saudita nel settore del petrolio. Ma la Russia è anche il secondo paese produttore di greggio del pianeta: all’inizio del 2006 sfornava appena 1,4 milioni di barili al giorno in meno degli 11 milioni dell’Arabia Saudita. Inoltre è al secondo posto nel mondo – dopo gli Stati Uniti – per le sue riserve di carbone ed è uno dei maggiori consumatori di energia nucleare, con 31 reattori operativi.

Poco dopo essere diventato presidente, nel 1999, Vladimir Putin ha cominciato a trasformare questa sovrabbondanza energetica – l’equivalente economico di un arsenale nucleare – in una forma di influenza politica, con l’obiettivo di restituire alla Russia il suo status di grande potenza. Attraverso il controllo del flusso di energia proveniente dalla Russia e da ex repubbliche sovietiche come il Kazakistan e il Turkmenistan (che si servono degli oleodotti e dei gasdotti russi), Putin ha cercato di restaurare la sfera d’influenza di cui godevano le autorità sovietiche al culmine della guerra fredda.

Questa, dunque, è una delle facce dell’energofascismo in Russia: l’uso dell’energia come strumento di condizionamento politico e di coercizione sugli stati confinanti più deboli. “L’energia non è la nuova arma atomica”, ha dichiarato Cliff Kupchan, della società di consulenza Eurasia Group, al Financial Times. “Ma la Russia sa che con la forza del petrolio, usata in modo aggressivo e intelligente, può esercitare una grande influenza diplomatica”.

Il rinascimento nucleare

Un ultimo aspetto dell’energofascismo è che il maggiore uso di energia nucleare produrrà un aumento del controllo e della repressione da parte dello stato. Man mano che il petrolio e il gas naturale diventeranno più scarsi, i politici e gli industriali insisteranno per ricorrere al nucleare. Il progetto sarà favorito dalla preoccupazione per il riscaldamento globale, dovuto per lo più alle emissioni di anidride carbonica prodotte dalla combustione del petrolio, del gas e del carbone. Il presidente Bush ha espresso più volte il desiderio di fare maggiore affidamento sull’energia nucleare. E anche altri paesi come la Francia, la Cina, il Giappone, la Russia e l’India hanno in programma di fare la stessa cosa, aumentando il numero dei reattori. Ci sono alcuni ostacoli a questo rinascimento nucleare, tra cui il suo costo stratosferico e il fatto che non è stato ancora trovato un modo sicuro per immagazzinare le scorie.
Inoltre, nonostante i miglioramenti introdotti nei sistemi di sicurezza delle centrali, resta il timore di incidenti come quelli di Three Mile Island nel 1979 e di Cernobyl nel 1986. Ci sono due aspetti particolarmente preoccupanti della futura crescita dell’industria nucleare: il possibile passaggio dei reattori nucleari statunitensi sotto l’esclusivo controllo federale e l’eventuale stretta autoritaria per evitare che la maggiore disponibilità di materiali nucleari ne favorisca il contrabbando con terroristi, criminali e stati “canaglia”.

Immaginiamo che in un futuro l’amministrazione statunitense faccia approvare un emendamento all’Energy policy act (la legge sulla politica nucleare): il governo federale potrà decidere la costruzione di reattori nucleari, come fa oggi con gli impianti di rigassificazione. Le autorità federali annunciano il progetto di costruire decine o addirittura centinaia di nuovi reattori, sostenendo che c’è urgente bisogno di più energia. I cittadini scendono in piazza per protestare. Le autorità locali si schierano con i dimostranti e si rifiutano di arrestarli in massa. Ma in questo modo sfidano le autorità federali. La guardia nazionale o l’esercito intervengono per soffocare le proteste e difendere i reattori: l’energofascismo entra in azione.

Il ricorso al nucleare, inoltre, richiederebbe un aumento sistematico del controllo dello stato su tutte le persone collegate anche lontanamente all’energia atomica commerciale. Dopotutto ogni impianto per l’arricchimento dell’uranio, ogni reattore e ogni deposito di scorie – oltre a tutti i collegamenti tra questi impianti – sarebbe una potenziale fonte di materiale fissile per i terroristi, per il mercato nero o per stati canaglia come l’Iran e la Corea del Nord. Tutto il personale impiegato in questi impianti, tutti gli appaltatori e subappaltatori, le loro famiglie e i loro amici, dovrebbero essere costantemente sorvegliati per evitare che restino coinvolti in traffici illeciti.

E poi c’è il problema dei reattori autofertilizzanti. Questi impianti producono più materiale fissile di quello che consumano, in generale sotto forma di plutonio. Questo elemento può, a sua volta, essere bruciato nei reattori nucleari per generare elettricità, ma può essere anche usato come combustibile per le armi atomiche. Anche se attualmente i reattori autofertilizzanti sono vietati negli Stati Uniti, altri paesi – tra cui il Giappone – li stanno costruendo per ridurre la loro dipendenza dai combustibili fossili e dall’uranio naturale, che è una risorsa limitata. Se la domanda di energia atomica aumenterà, altri paesi (forse anche gli stessi Stati Uniti) saranno costretti a costruire reattori autofertilizzanti. Ma così aumenterà la disponibilità di plutonio utilizzabile per la fabbricazione di bombe, e crescerà il controllo statale su tutta l’industria nucleare.

Queste sono le conseguenze dell’esaurimento delle riserve di energia del pianeta e dello spostamento della produzione di energia dal nord al sud del mondo.

Molti cittadini e organizzazioni sono preoccupati e stanno cercando di trovare una risposta sensata e democratica ai problemi causati dall’esaurimento delle risorse, dall’instabilità delle regioni produttrici di energia e dal riscaldamento globale. La maggior parte dei governi, tuttavia, sembra decisa a risolvere le difficoltà con un maggiore controllo da parte dello stato e un maggiore uso della forza militare. Se non ci opporremo a questa tendenza, l’energofascismo potrebbe essere il nostro futuro.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *