Papalagi

Georg Gross "Giornata grigia", particolare 1921 Berlino, Nationalgalerie.

Georg Gross Giornata grigia, particolare – 1921 Berlino, Nationalgalerie.

Tuiavii, un saggio capo indigeno delle isole Samoa, compì un viaggio in Europa agli inizi del secolo, venendo a contatto con gli usi e costumi del “Papalagi”, l’uomo bianco.
Ne trasse delle impressioni folgoranti che gli servirono per mettere in guardia il suo popolo dal fascino perverso dell’occidente.

Erich Scheurmann, un artista tedesco amico di Hermann Hesse fuggito nei mari del Sud per evitare la prima guerra mondiale, raccolse questo tesoro di saggezza e lo pubblicò. “Papalagi” è un trattato etnologico sulla tribù dei bianchi, esilarante ed atroce.


INDICE

Introduzione Introduzione: di Erich Scheurmann – 1920

Cap. 01 Del Papalagi e del suo ricoprirsi la carne,dei suoi molti panni e stuoie

Cap. 02 Dei cassoni di pietra, delle fessure di pietra, delle isole di pietra e di quel che vi sta in mezzo

Cap. 03 Del metallo rotondo e della carta pesante

Cap. 04 Le molte cose impoveriscono il Papalagi

Cap. 05 Il Papalagi non ha tempo

Cap. 06 Il Papalagi ha impoverito Dio

Cap. 07 Il Grande Spirito è più forte della macchina

Cap. 08 Del lavoro del Papalagi e del modo in cui vi si smarrisce

Cap. 09 Dei luoghi della finta vita e delle molte carte

Cap. 10 La grave malattia del pensare

Cap. 11 Il Papalagi vuole condurci nella sua oscurità


Introduzione: di Erich Scheurmann – 1920 (torna all’indice)

Tuiavii non ebbe mai intenzione di presentare in Europa questi discorsi e tanto meno di farli stampare; essi erano concepiti esclusivamente per le sue genti polinesiane. Se io, tuttavia, a sua insaputa e certo contro la sua volontà, ho offerto i discorsi di questo nativo al mondo dei lettori europei, ciò è avvenuto nella convinzione che anche per noi bianchi e “illuminati” possa essere importante sapere con quali occhi un uomo ancora così strettamente legato alla natura vede noi e la nostra civiltà. Attraverso i suoi occhi impariamo a vederci da un angolo visuale che non potrebbe mai essere nostro. Anche se i fanatici estimatori di questa nostra civiltà possono considerare puerili e forse addirittura sciocche le sue considerazioni sull’uomo bianco, le parole di Tuiavii non posano che indurre a riflettere i più umili fra noi, costringendoci a un esame dei nostri comportamenti.

Questi discorsi in sé non rappresentano altro che un richiamo a tutti i popoli primitivi dei mari del sud a tenersi lontani dai popoli cosiddetti illuminati del continente europeo. Tuiavii, col suo disprezzo per l’Europa, visse nella profonda convinzione che i suoi antenati avevano commesso un gravissimo errore lasciandosi sedurre dalle luci dell’Europa. Come quella vergine di Fagasa che dall’alto di uno scoglio respingeva con il suo ventaglio il primo missionarìo bianco: «Tenetevi lontani, voi demoni del male!», anch’egli vedeva, nell’Europa il demone oscuro, il principio distruttore da cui ci si deve guardare se si vuol difendere la propria innocenza. Quando incontrai Tuiavii per la prima volta, egli viveva pacifico e isolato dal mondo europeo nella sua lontana isola di Upolu, del gruppo delle isole Samoa, nel villaggio di Tiavea, di cui era il capo e l’indiscusso signore. L’impressione che faceva era quella di un gigante gentile e massiccio. Era alto circa due metri, di costituzione eccezionalmente robusta, con una voce tenera e dolce da fanciulla, in contrasto con la sua possente figura. E i grandi occhi scuri profondamente infossati, ombreggiati da folte sopracciglia, avevano qualcosa di rìgido e di immobile: ma quando gli si rivolgeva la parola, subito scintillavano pieni di calore e tradivano un animo sereno e benevolo.

Nulla distingueva Tuiavii dai suoi fedeli isolani. Come loro beveva la kava, la sera e la mattina andava al Loto (il servizio divino), mangiava banane, taro e jams e rispettava tutti gli usi e costumi della sua terra. Solo i più intimi sapevano ciò che covava nel suo animo, quando se ne stava steso sulla stuoia con gli occhi semichiusi, come se stesse sognando, alla incessante ricerca di qualcosa che chiarisse il suo problema.

Mentre il nativo in generale vive solo ed esclusivamente del regno delle proprie sensazioni, sempre e solo nel presente, come un bambino, senza osservare se stesso né ciò che lo circonda, Tuiavii era in questo senso un’eccezione.

Può darsi che anche da questo suo esser diverso sia nato in Tuiavii il desiderio di conoscere la lontana Europa; un desiderio intenso, nutrito lungamente, fin da quando era giovane alunno nella scuola della missione dei Padri Maristi; un sogno che si realizzò soltanto negli anni della maturità. Unendosi a un gruppo di rappresentanti di vari popoli che allora visitavano l’Europa, quest’uomo così avido di conoscenza conobbe uno dopo l’altro tutti gli Stati europei e acquistò una chiara nozione degli usi e della civiltà di questi paesi. Più d’una volta ebbi occasione di stupirmi di quanto fossero precise le informazioni che assimilava, anche quelle che riguardavano cose apparentemente di poco conto. Tuiavii possedeva in straordinaria misura il dono di saper vedere in maniera obiettiva, libera da ogni preconcetto. Nulla lo poteva accecare, e non v’erano parole che potessero distoglierlo da una verità. Egli vedeva per cosi dire la cosa in sé; nonostante si dedicasse a studiare molte cose, non fu mai capace di abbandonare il proprio punto di vista.

Sebbene mi trovassi a vivere per oltre un anno molto vicino a lui (ero membro della comunità del suo villaggio), Tuiavii si confidò con me soltanto dopo che fummo diventati amici, dopo ch’egli era riuscito a dimenticare del tutto l’europeo ch’era in me. Quando si fu convinto che ero maturo per la sua semplice saggezza e che non avrei sorriso di lui (cosa che peraltro non feci mai), solo allora mi lesse brani delle sue annotazioni. Me li lesse senza slancio, senza alcun fervore oratorio, come se tutto ciò che aveva da dire fosse storia. Tuttavia, proprio questo modo di esporre rendeva le sue enunciazioni tanto più limpide e chiare, e faceva nascere in me il desiderio di conservare memoria di ciò che udivo. Solo molto più tardi Tuiavii mi affidò i suoi appunti e mi concesse di farne una traduzione in tedesco, traduzione che, come egli pensava, doveva servire esclusivamente come commento personale e mai sarebbe dovuta essere fine a se stessa. Tutti questi discorsi sono quindi bozzetti incompiuti. Tuiavii non li ha mai considerati altro che tali. Soltanto quando avesse completamente coordinato la materia del suo spirito e avesse raggiunto la definitiva chiarezza, solo allora intendeva iniziare la sua opera di “missionario” in Polinesia, come lui diceva. Io dovetti lasciare l’Oceania prima che avesse raggiunto questo livello di maturità.
Cap. 01

Del Papalagi e del suo ricoprirsi la carne, dei suoi molti panni e stuoie (torna all’indice)

Il Papalagi si preoccupa costantemente di ricoprire bene la sua carne. «Il corpo e le sue membra sono carne, solo quel che è al di sopra del collo è la persona vera e propria» mi disse una volta un Bianco, che era molto stimato ed era giudicato molto saggio. Secondo lui era degno di considerazione solo il luogo dove lo spirito e tutti i pensieri
buoni e cattivi avevano la loro sede. La testa. Il Bianco la lascia volentieri scoperta, insieme, se necessario, alle
mani. Anche se la testa e le mani non sono altro che carne e ossa. Chi, poi, fa vedere la propria carne, non può dirsi
ben educato.

Quando un ragazzo fa di una ragazza la sua donna, non sa mai se è stato ingannato, perché non ha mai visto prima il suo corpo. Una ragazza, per quanto bella, anche quanto la più bella delle vergini delle Samoa, ricopre il suo corpo, in modo che nessuno lo possa vedere o possa trarre piacere alla sua vista.

La carne è peccato. Così dice il Papalagi. Perché il suo spirito è grande per il suo pensiero. Il braccio, che si alza
pronto al lancio nella luce del sole, è una freccia del peccato. Il petto, sul quale si riversa l’onda del respiro, è un
guscio per il peccato. Le membra, con le quali una vergine ci offre la sua danza, sono peccaminose. E anche le
membra che si toccano per generare creature per la gioia della grande Terra, sono peccato. Tutto quel che è carne
è peccato. In ogni tendine è un veleno, un veleno maligno che passa da una creatura all’altra. Chi anche soltanto guarda la carne, succhia veleno, ne è ferito ed è malvagio e abietto come chi la mostra. Così dichiarano le sacre leggi morali dell’uomo bianco.

Anche per questo il corpo del Papalagi è avvolto dalla testa ai piedi da panni, stuoie e pelli, in modo così fitto e
compatto, che non vi possono penetrare né la luce del sole né sguardi umani, tanto che il suo corpo diventa pallido, bianco e stanco, come i fiori che crescono nella fitta foresta vergine.

Fatemi dire, voi, fratelli delle molte isole, che siete più ragionevoli, che peso un solo Papalagi porta sul suo
corpo: sotto a tutto una sottile pelle bianca, ricavata dalle fibre di una pianta, ricopre il corpo nudo; questa pelle si
chiama pelle di sopra. Da sopra la si fa scendere sulla testa, il petto e le braccia, fino ai fianchi. La cosiddetta
pelle di sotto viene infilata dal basso in alto, sopra alle gambe e ai fianchi, fino all’ombelico. Tutte e due le pelli
vengono ricoperte da una terza più spessa, una pelle intessuta con i peli di un quadrupede lanoso, che viene
allevato a questo scopo. Questo è il panno vero e proprio. È composto per lo più di tre parti, di cui una ricopre il
busto, una l’addome e la terza le cosce e le gambe. Tutte e tre le parti vengono tenute insieme da conchiglie e lacci
ricavati dal succo disseccato dell’albero della gomma, in modo che sembrino un unico pezzo. Questi panni sono
per lo più grigi come la laguna nella stagione delle piogge; non devono mai essere troppo colorati. Al massimo lo
può essere il panno di mezzo, e solo negli uomini che vogliono far parlare di sé e che corrono molto dietro alle
femmine.

Ai piedi vanno infine una pelle soffice e una molto robusta. Quella soffice è per lo più elastica, e si adatta bene al
piede, a differenza di quella molto robusta. È ricavata dalla pelle di un forte animale, che viene immersa
nell’acqua, scarnata con il coltello, battuta e tenuta al sole, finché non diventa abbastanza dura. Con questa il
Papalagi costruisce poi una specie di canoa con i bordi rialzati, abbastanza grande da accogliere un piede. Una
canoa per il piede sinistro e una per il destro. Queste barche da piede vengono legate e annodate ben bene alla
caviglia con corde e ganci, in modo che i piedi siano in un solido guscio, come il corpo di una lumaca di mare.
Queste pelli da piedi il Papalagi le porta dall’alba al tramonto, ci fa i viaggi e ci danza, le porta anche se fa caldo come dopo una pioggia tropicale.

Poiché ciò è molto innaturale, come ben vede il Bianco, e poiché ciò rende i piedi come morti e li fa puzzare, e
poiché in realtà la maggior parte dei piedi europei non riesce più ad avere la presa o ad arrampicarsi su una palma,
per questi motivi il Papalagi cerca di nascondere la sua follia ricoprendo con molto sudiciume la pelle di questo
animale, che sarebbe rossa: strofinandola molto la rende lustra tanto che gli occhi ne rimangono abbagliati e si
devono distogliere.
Viveva un tempo in Europa un Papalagi che era divenuto famoso, e dal quale andavano molte persone, perché
diceva loro: «Non è bene che portiate ai piedi pelli così strette e pesanti, andate a piedi nudi sotto il cielo, finché la
rugiada della notte ricopre l’erba e tutti i malanni si allontaneranno da voi». Quest’uomo era molto sano e saggio, ma
si è sorriso di lui e lo si è presto dimenticato.

Anche la donna, come l’uomo, indossa molti panni e stuoie avvolti intorno al corpo e alle gambe. La sua pelle è
per questo ricoperta di cicatrici e ferite causate dai lacci. Ilseno si avvizzisce e non da più latte per colpa della pressione di una stuoia che si lega dal collo all’addome, al petto e anche sulla schiena; una stuoia che è resa molto dura da ossa di pesce, fil di ferro e nastri. La maggior parte delle madri danno quindi ai loro figli il latte in un cilindro di vetro, che sotto è chiuso, e sopra ha un capezzolo artificiale. Il latte che danno non è il loro, ma quello di brutti animali rossicci e cornuti, ai quali viene tolto con violenza dai quattro tappi che hanno sotto la pancia.

Per il resto i panni delle donne e delle ragazze sono più leggeri di quelli degli uomini e possono anche essere colorati e brillare in lontananza. Fanno intravedere spesso anche collo e braccia e lasciano scoperta più carne degli
uomini. Tuttavia è ben visto se una ragazza si copre molto, e la gente dice con compiacimento: è casta, il che vuoi dire: si attiene alle leggi della costumanza. Perciò non ho mai capito perché ai grandi ricevimenti e
banchetti le donne e le ragazze possono mostrare liberamente la carne intorno al collo e la schiena, senza che questo sia uno scandalo. Ma forse è proprio questo che da sapore alla festa: che in quell’occasione è permesso quel che non è permesso tutti i giorni.

Solo gli uomini mantengono il collo e la schiena sempre molto coperti. Dal collo ai capezzoli il Papalagi porta un
pezzo di stoffa imbiancato e irrigidito della grandezza di una foglia di taro. Su questo è poggiato, stretto intorno al
collo, un cerchio altrettanto imbiancato e rigido. Su questo cerchio il Papalagi avvolge un pezzo di stoffa colorato, che si annoda come una fune da barca, vi pianta un chiodo d’oro o una perla di vetro e fa pendere il tutto sul suo scudo. Molti Papalagi portano cerchi imbiancati ai polsi, mai però alle caviglie. Questi scudi bianchi e i cerchi imbiancati sono molto
significativi.

Un Papalagi non si presenterà mai a una femmina senza quest’ornamento del collo. Ancora peggio se l’anello imbiancato è diventato nero e non ha più nessuna lucentezza. Molti signori illustri cambiano per questo ogni giorno i loro scudi e i cerchi imbiancati. Mentre la donna ha molti panni colorati da festa, ne ha casse piene, che stanno ritte in piedi, e si da molto pensiero per decidere quale panno desidera indossare l’uno o l’altro giorno, se deve essere lungo o corto, e parla sempre con molto amore dei monili da mettervi sopra, l’uomo ha per lo più un solo vestito da festa e non ne parla quasi
mai. Questo è il cosiddetto vestito a coda di rondine, in panno di colore nero carbone, che finisce a punta sulla
schiena, come la coda di un pappagallo della foresta. Con questo vestito da festa anche le mani devono indossare
pelli bianche, pelli su ogni singolo dito, che stanno così strette, che il sangue brucia e scorre velocemente al
cuore. È ammesso perciò che gli uomini più ragionevoli tengano semplicemente queste pelli tra le mani, o che le
infilino nei loro panni, sotto i capezzoli.

Non appena l’uomo o la donna lasciano la capanna per andare in strada, si ricoprono con un altro ampio panno
che, a seconda che brilli o no il sole, può essere più pesante o leggero. Ricoprono poi anche la testa, gli uomini con una specie di recipiente nero e rìgido, arrotondato e cavo come il tetto di una casa delle Samoa, le donne con grossi canestri o ceste rovesciate, alle quali fissano fiori che non appassiscono mai, piume, strisce di panno, perline di vetro e ornamenti di ogni genere. Assomigliano al Tuiga portato da una Taopou in una danza di guerra, solo
che il Tuiga è molto più bello e non cade dalla testa durante la tempesta o la danza. Gli uomini agitano queste casette da testa a ogni incontro in segno di saluto, mentre le donne piegano il peso che hanno sulla testa solo leggermente in avanti, come una barca caricata male.

Solo di notte, quando il Papalagi desidera la sua stuoia, si libera di tutti i panni, per avvolgersi però immediatamente in un altro panno ancora, un pezzo unico aperto ai piedi che restano scoperti. Le ragazze e le donne portano questo vestito da notte il più delle volte riccamente decorato intorno al collo, che però si riesce a vedere poco. Non
appena il Papalagi si stende sulla sua stuoia, si ricopre immediatamente da capo a piedi con le piume della pancia di un grande uccello, raccolte in un grande pezzo di stoffa, in modo che non possano spargersi o volare via.

Queste piume portano il corpo a sudare a fanno sì che il Papalagi pensi di stare steso al sole anche se non
risplende, visto che non ha una grande considerazione del sole vero e proprio.
Ora è evidente che a causa di tutti questi trattamenti il corpo del Papalagi diventa bianco e smorto, senza il colore
della gioia. Ma così piace al Bianco. Le donne, e specialmente le ragazze, si preoccupano scrupolosamente di proteggere la loro pelle, per non farla mai arrossire sotto la grande luce; per proteggersi tengono un grande tetto sulla
loro testa ogni volta che si espongono al sole. Come se lo smorto colore della luna fosse più prezioso del colore del
sole.

Ma il Papalagi ama trarre da tutte le cose una saggezza e una legge che siano di suo gradimento. Il suo naso, appuntito come il dente di uno squalo, per lui è bello, e il nostro, che rimane sempre rotondo e morbido, per lui è brutto, sgraziato, mentre noi diciamo proprio il contrario. Poiché i corpi delle donne e delle ragazze sono così ben coperti, gli uomini e i ragazzi hanno un gran desiderio di vedere la loro carne, così come è al naturale. Ci pensano notte e giorno e parlano molto delle forme delle donne e delle ragazze, e sempre come se quel che è naturale e bello, fosse un grande peccato e potesse accadere solo nelle ombre più fitte.

Se mostrassero la carne liberamente, gli uomini potrebbero rivolgere meglio i loro pensieri ad altre cose, e quando incontrano una ragazza i loro occhi non starebbero a sbirciare, e la loro bocca non pronuncerebbe parole lascive.

Ma la carne è peccato, è del diavolo. Esiste pensiero più folle, cari fratelli? Se si dovesse credere alle parole del Bianco, allora si dovrebbe preferire, insieme a lui, che la carne fosse dura come la roccia della lava e priva del suo bel calore che viene da dentro.

Rallegriamoci invece della nostra carne, che può parlare con il sole, di poter muovere le nostre gambe come il cavallo selvaggio, perché non le tiene legate nessun panno, e non le opprime nessuna pelle da piedi, e non dobbiamo stare attenti che non ci caschi dalla testa il nostro copricapo. Rallegriamoci per la vergine che è bella nel corpo e mostra le sue membra al sole e alla luna. Stolto, cieco, senza il sentimento della vera gioia, è il Bianco, che si deve coprire tanto per non provare vergogna.

Cap 02

Dei cassoni di pietra, delle fessure di pietra, delle isole di pietra e di quel che vi sta in mezzo (torna all’indice)

Il Papalagi abita come la conchiglia di mare in un guscio sicuro. Vive in mezzo alle pietre, come la scolopendra tra le fessure della lava. Le pietre sono tutte intorno a lui, al suo fianco e sopra di lui. La sua capanna è simile a un vero e proprio cassone di pietra. Un cassone con molti ripiani tutto sforacchiato.

Si può sgusciare dentro e fuori queste costruzioni di pietra solo in un punto. Il Papalagi chiama questo posto entrata quando va dentro la capanna, uscita, quando va fuori, anche se è sempre proprio la stessa. In questo posto ci sta una grande ala di legno, che bisogna spingere con forza per poter entrare nella capanna.

Ma si è solo all’inizio, solo dopo aver spinto ancora molte ali si è veramente nella capanna. La maggioranza delle capanne sono abitate da più persone di quante non ce ne siano in un solo villaggio delle Samoa, e per questo bisogna conoscere bene il nome della famiglia che si vuole andare a trovare, perché ognuno ha per sé una determinata parte del cassone di pietra, sopra, sotto, o nel mezzo, a sinistra, a destra o davanti. E una famiglia spesso non sa niente delle altre, ma proprio niente, come se non ci fosse tra loro solo una parete di pietra, ma le isole Manono, Apolima e Savaii e poi molti mari. Spesso non conoscono che il nome degli altri, e quando si incontrano presso il foro dal quale si sguscia dentro, si scambiano solo controvoglia un saluto, oppure si brontolano contro come insetti nemici. Come se fossero irritati perché devono vivere vicino agli altri.

Se la famiglia abita in alto, sotto il tetto della capanna, bisogna arrampicarsi per molti rami, messi a zig-zag o formanti cerchi, per arrivare al posto dove è scritto alla parete il nome della famiglia. Ci si trova davanti la bella imitazione di un capezzolo femminile, sul quale si preme finché non risuona un grido che richiama la famiglia. La famiglia guarda attraverso un piccolo buco rotondo, con una grata, fatto alla parete, per vedere se si tratta di un nemico. In questo caso non apre. Se però riconosce un amico, dischiude una grossa ala di legno, che è ben serrata, e la tira verso di sé, in modo che l’ospite possa entrare attraverso la fessura nella capanna vera e propria. Questa a sua volta è interrotta da molte erte pareti di pietra, e si continua a sgusciare di ala in ala da un cassone all’altro, uno più piccolo dell’altro. Ogni cassone, che il Papalagi chiama camera, ha un buco, se il cassone è più grande ne ha due o di più, dai quali entra la luce. Questi buchi sono ricoperti di vetro, che si può togliere quando si vuol far entrare aria fresca nel cassone, il che è molto necessario. Ci sono però molti cassoni senza buchi per la luce e per l’aria. Un abitante delle Samoa soffocherebbe subito in questi cassoni, perché non li attraversa mai un soffio di aria fresca come in qualsiasi capanna delle Samoa. Anche gli odori della stanza dove si cucina cercano un’uscita. Il più delle volte però l’aria che viene da fuori non è molto meglio; si può capire solo con difficoltà come faccia lì una persona a non morire, come non diventi, per il desiderio, un uccello, come non gli crescano le ali, in modo che possa alzarsi in volo e andare dove ci sono l’aria e il sole.

Ma il Papalagi ama i suoi cassoni di pietra e non si accorge più della loro dannosità. Ogni cassone è destinato a uno scopo particolare. Il più grande e illuminato è per le riunioni di famiglia o per ricevere le visite, un altro è per il sonno. Qui stanno le stuoie, poggiate su un telaio di legno con lunghe gambe, in modo che possa passare aria sotto le stuoie. Un terzo cassone è per mangiare e fare nuvolette di fumo, in un quarto si conservano le provviste, nel quinto si cucina e nell’ultimo e più piccolo si fa il bagno. Questa è la stanza più bella di tutte. È ricoperta con grandi specchi, il pavimento è decorato con un rivestimento di pietre colorate; al centro c’è un grande guscio di metallo o pietra dove scorre acqua riscaldata o non riscaldata. In questo guscio, che è grande, più grande della tomba di un capo, si entra per pulirsi e per lavarsi via la molta polvere dei cassoni di pietra. Ci sono naturalmente capanne con più cassoni. Ci sono perfino capanne in cui ogni bambino ha il proprio cassone, come anche ogni servo del Papalagi, i suoi cani e i suoi cavalli. Il Papalagi passa dunque la sua vita tra questi cassoni. Ora in questo, ora in quel cassone a seconda del momento della giornata e dell’ora. Qui crescono i suoi figli, in alto, al di sopra della terra, spesso ancora più su di una palma adulta, tra le pietre. Di tanto in tanto il Papalagi lascia i suoi cassoni privati, come li chiama lui, per entrare in altri cassoni dove conduce i suoi affari, dove non vuole essere disturbato e stare senza moglie e figli. Nel frattempo le fanciulle e le donne stanno nel cassone privato a cucinare, a rendere lucide le pelli da piedi o a lavare i panni. Quando le famiglie sono ricche e possono tenere presso di sé dei servi, sono questi a lavorare, e le donne vanno a far visite o a prendere nuove provviste. Vivono in Europa in questo modo tante persone, quante sono le palme che crescono nelle Samoa, e anche di più. Alcuni hanno nostalgia della foresta, del sole e della luce vera, ma questa nostalgia viene vista come una malattia che bisogna debellare. Se qualcuno non è contento di questa vita tra le pietre si dice: è una persona innaturale. Il che significa: non sa cosa ha deciso Dio per gli uomini.

Questi cassoni di pietra a loro volta stanno numerosi l’uno addosso all’altro, non li separa nessun albero, nessun cespuglio, stanno come le persone, gomito a gomito, e in ognuno vivono tanti Papalagi quanti in un villaggio delle Samoa. A un tiro di pietra, sulla parte opposta, c’è un’identica fila di cassoni di pietra, di nuovo gomito a gomito, e anche questi sono abitati. E così tra le due file c’è una stretta fessura che il Papalagi chiama “strada”. Questa fessura è spesso lunga quanto un fiume ed è ricoperta con dure pietre. Bisogna camminare a lungo prima di trovare un posto più aperto, dove sboccano altre fessure delle case. Anche queste sono lunghe come grandi corsi d’acqua dolce, e le aperture che hanno ai lati sono di nuovo fessure di pietra della stessa lunghezza. Si può quindi vagare per giorni tra queste fessure per riuscire a trovare una foresta o un grande pezzo azzurro di cielo. Tra le fessure si vede solo raramente il vero colore del cielo, perché essendoci in ogni capanna come minimo un focolare – ma spesso ce ne sono molti di più – l’aria è quasi costantemente piena di molto fumo e cenere, come quando entra in eruzione il grande cratere a Savaii. Fumo e cenere piovono giù per le fessure, e gli alti cassoni di pietra diventano come la melma delle paludi, terra nera va negli occhi e nei capelli e dura sabbia tra i denti. Ma tutto questo non impedisce al Papalagi di girare tra queste fessure da mattina a sera. Per di più ce ne sono molti che ne traggono un gran piacere. Specialmente in alcune fessure c’è una gran confusione, e le persone vi scorrono come un fitto limo. Sono le strade in cui sono costruite gigantesche scatole di vetro, nelle quali sono disposte tutte le cose di cui un Papalagi ha bisogno per vivere: panni, ornamenti per il capo, pelli per mani e piedi, provviste, carne e cibi veri e propri come frutta, verdura e molte altre cose ancora. Stanno esposte per attirare la gente. Nessuno può però prendere per sé qualcosa, anche se ne ha molto bisogno, senza aver avuto un particolare permesso e aver offerto un sacrificio.

In queste fessure incombono da tutte le parti molti pericoli, perché la gente non solo corre disordinatamente, ma viaggia e cavalca in lungo e in largo, o si lascia trasportare in grandi cassoni di vetro che scivolano su nastri metallici. Il rumore è forte. Le orecchie sono stordite perché i cavalli sbattono con i loro zoccoli sulle pietre, mentre gli uomini vi sbattono con le loro pelli da piedi. I bambini strillano, gli uomini strillano, per gioia o spavento, tutti strillano. Nessuno può farsi capire se non urla. È tutto un fischiare, sferragliare, sbattere, rintronare, come se si fosse tra i frangenti di Savaii, in un giorno in cui strepita la tempesta. Ma questo strepitare è molto più piacevole, e non ti toglie la ragione come lo strepitare tra le fessure di pietra. Tutto questo insieme: i cassoni di pietra con tanta gente, le alte fessure di pietra, che scorrono da una parte all’altra come mille fiumi, la gente all’interno, i rumori e gli strepiti, e la sabbia nera e il fumo che tutto ricopre, senza un albero, senza l’azzurro del cielo, senza l’aria limpida e le nuvole, tutto questo è quel che il Papalagi chiama “città”. La creazione di cui va tanto fiero. Anche se ci vive gente che non ha mai visto di persona un albero, un bosco, il cielo aperto, il Grande Spirito. Persone che vivono come i rettili nella laguna, che dimorano sotto i coralli, e che però almeno vengono lambiti dalla chiara acqua marina, e sono raggiunti dal sole con il suo fiato caldo. Il Papalagi è davvero orgoglioso delle pietre che ha messo insieme? Non lo so. Il Papalagi è un individuo con strane idee. Fa molte cose che non hanno senso e che lo fanno ammalare, e tuttavia le esalta e ne canta le lodi. La città è quindi come vi ho detto. Ci sono però molte città, piccole e grandi. Nelle più grandi abitano i capi principali di un paese. Tutte le città stanno sparse come le nostre isole nel mare. Spesso si trovano alla distanza di una nuotata l’una dall’altra, spesso però sono lontane una giornata di viaggio. Tutte le isole di pietra sono collegate con sentieri ben segnalati. Si può viaggiare anche con una nave da terra, sottile e lunga come un verme, che butta fuori continuamente fumo e scivola molto velocemente su lunghe strisce di ferro, più velocemente di una barca a dodici posti che va a pieno ritmo. Se però vuoi solo fare un saluto al tuo amico su un’altra isola, non c’è bisogno che tu vada, o scivoli, da lui. Devi soffiare le tue parole in fili metallici, che vanno da un’isola all’altra come lunghe liane. Più veloci di quanto possa volare un uccello arrivano al luogo che hai stabilito. Tra le isole di pietra c’è quella che in Europa chiamano campagna. Qui talvolta la terra è bella e fertile come da noi. Ci sono alberi, fiumi e foreste, e ci sono anche piccoli villaggi. Anche se le capanne sono pure qui di pietra, sono in molti casi circondate da alberi carichi di frutta, la pioggia le può lavare su tutti i lati e il vento le può quindi asciugare di nuovo. In questi villaggi vive gente diversa, con idee diverse da quella di città. Li chiamano gente di campagna. Hanno mani più rozze e panni più sporchi degli uomini delle fessure, anche se hanno molto più da mangiare di loro. La loro vita è molto più sana e bella di quella degli uomini delle fessure. Ma proprio loro non ne sono convinti e invidiano quelli che chiamano fannulloni perché non devono chinarsi sulla terra per piantare e raccogliere i suoi frutti. Vivono in ostilità con loro, poiché devono dare loro il nutrimento della campagna, devono raccogliere i frutti che l’uomo delle fessure mangia, devono sorvegliare e allevare il bestiame finché non è abbastanza grasso, per dargli la metà anche di questo. Si danno comunque molto da fare per procurare il cibo agli uomini delle fessure, e non vedono il motivo per cui quelli indossino panni più belli dei loro, e abbiano mani bianche più belle e non debbano sudare molto al sole e soffrire il freddo sotto la pioggia. L’uomo delle fessure si preoccupa però molto poco di questo. È convinto di avere maggiori diritti dell’uomo di campagna, e per lui il suo lavoro ha più valore di quanto non ne abbia piantare e raccogliere i frutti della terra. Questo disaccordo tra i due gruppi non è tale da portare alla guerra.

In generale le cose al Papalagi stanno bene così come sono, che viva tra le fessure o in campagna. L’uomo di campagna ammira il regno dell’uomo delle fessure, e l’uomo delle fessure canta e gorgheggia le lodi della campagna. L’uomo delle fessure lascia che l’uomo di campagna ingrassi artificialmente i maiali, e questi a sua volta lascia che l’uomo delle fessure costruisca i suoi cassoni di pietra e vi si trovi a suo agio. Noi però, che siamo i liberi figli del sole e della luce, vogliamo rimanere fedeli al Grande Spirito e non vogliamo appesantirgli il cuore con le pietre. Solo uomini smarriti e malati, che non stringono più la mano di Dio, possono vivere felici tra fessure di pietra, senza sole, luce e vento. Concediamo al Papalagi la sua dubbia felicità, ma distruggiamo ogni suo tentativo di innalzare cassoni di pietra sui nostri lidi assolati e impediamogli di uccidere la gioia di vivere con pietre, fessure, sporcizia, rumore, fumo e sabbia, come è sua intenzione e mira.

Cap 03

Del metallo rotondo e della carta pesante (torna all’indice)

Ragionevoli fratelli, ascoltate fiduciosi e siate felici di non conoscere la scelleratezza e la miseria del Bianco. Tutti voi potete testimoniare che il missionario dice: «Dio è amore ». Che un vero cristiano farebbe bene a tenere sempre davanti a sé l’immagine dell’amore. Che solo al grande Dio andrebbe l’adorazione del Bianco. Il missionario ci ha mentito, ingannato, il Papalagi lo ha corrotto perché ci ingannasse con le parole del Grande Spirito. Perché il metallo rotondo e la carta pesante, chiamati denaro, questi sono la vera divinità del Bianco. Se parlate a un Europeo del Dio dell’amore, questi torce il suo viso e sorride. Sorride della semplicità del vostro pensiero. Porgetegli però un pezzo rotondo e lucente di metallo, o un pezzo di carta grande e pesante, vedrete immediatamente brillare i suoi occhi, e salire molta saliva alla sua bocca. Il denaro è il suo amore. Il denaro è il suo Dio. Tutti i Bianchi ci pensano, anche quando dormono. Le mani di molti sono diventate curve e somigliano alle zampe delle grandi formiche della foresta, per quanto si danno da fare ad afferrare il metallo e la carta. Ci sono molti i cui occhi sono diventati ciechi a furia di contare il denaro. Ci sono molti che hanno dato via la loro felicità per denaro, la loro allegria, il loro onore, la loro coscienza, la loro felicità, la donna e i figli.

Quasi tutti sacrificano la loro salute.Per il metallo rotondo e la carta pesante. Lo infilano nei loro panni tra dure pelli piegate. Di notte lo mettono sotto il loro rotolo per dormire, cosi nessuno lo può portar via. Ci pensano ogni giorno, ogni ora, ci pensano in ogni momento. Tutti, proprio tutti! Anche i bambini. Devono pensarci per forza. Gli viene insegnato dalla madre e lo vedono dal padre.

Tutti gli Europei! Quando si va nelle fessure di pietra della Germania senti in ogni momento un grido: «Marco!» e di nuovo il grido: «Marco!». Si sente ovunque. È il nome del lucido metallo e della carta pesante. In Francia si chiama Franco, in Inghilterra Scellino, in Italia Lira. Marchi, franchi, scellini, lire, è sempre la stessa cosa. È sempre denaro, denaro, denaro. Solo il denaro è il vero Dio del Papalagi, quel che venera di più. È anche vero che non è possibile nei paesi dei Bianchi rimanere anche una sola volta, dall’alba al tramonto, senza denaro. Del tutto senza denaro. Non potresti placare la tua fame e la tua sete, non troveresti la stuoia per la notte. Ti metterebbero in prigione e finiresti sui tanti giornali perché non hai denaro. Devi pagare, che significa dare soldi, per il terreno sul quale cammini, per il posto dove sta la tua capanna, per la tua stuoia da notte, per la luce che illumina la tua capanna. Per sparare a un piccione o per bagnare il tuo corpo nel fiume. Se vuoi andare dove gli uomini si divertono, dove cantano o ballano, o se vuoi chiedere un consiglio al tuo fratello, devi dare molto metallo rotondo e carta pesante. Devi pagare per tutto. Ovunque c’è un tuo fratello che stende la mano e che ti disprezza o si infuria se non vi metti niente. E il tuo umile sorriso, e il tuo sguardo amichevole non servono ad ammorbidire il suo cuore: «Miserabile! Vagabondo! Perdigiorno!» significano tutti la stessa cosa e sono la più grande infamia che si possa rimproverare. Devi pagare anche per la tua nascita, e quando muori la tua famiglia deve pagare per la tua morte e perché il tuo corpo sia messo nella terra, e deve pagare per la grande pietra che si fa rotolare sulla tua tomba in tua memoria. Ho trovato solo una cosa per la quale non viene richiesto denaro, della quale se ne può avere quanta se ne vuole: l’aria che si respira. Ma devo pensare che è solo una dimenticanza, e non esito ad affermare che se qualcuno potesse udire in Europa queste mie parole, pretenderebbe immediatamente il metallo rotondo e la carta pesante. Perché tutti gli Europei cercano sempre nuove scuse per chiedere denaro.

Senza denaro sei in Europa un uomo senza testa, un uomo senza membra. Una nullità. Devi avere soldi. Hai bisogno di soldi come hai bisogno di mangiare, bere e dormire. Più soldi hai, migliore è la tua vita.Se hai denaro, puoi avere in cambio tabacco, anelli o bei panni.Puoi avere tanto tabacco, anelli o panni, a seconda di quanto denaro hai.Se hai molto denaro, puoi avere molto. Per questo tutti vogliono avere molto denaro. E ognuno ne vuole avere più degli altri. Da qui l’avidità e l’occhio che mira al denaro a ogni ora del giorno. Lancia un pezzo di metallo rotondo nella sabbia, e vedrai i bambini gettarvisi sopra, lottare, chi se ne impadronisce è il vincitore, ed è felice. Ma raramente si getta denaro nella sabbia. Da dove viene il denaro? Come puoi ottenere molto denaro? In molti modi diversi, in modi facili e difficili. Tagliando al tuo fratello i capelli, togliendo la sporcizia che sta davanti alla sua capanna, conducendo una canoa dall’altra parte del fiume, con una buona idea. Per amor di giustizia bisogna riconoscere che se sono necessari molto metallo rotondo e carta pesante per ogni cosa, puoi anche riceverne facilmente. Devi solo fare una cosa che in Europa chiamano «lavorare ». «Lavora e avrai denaro», recita una delle regole degli Europei. Domina però una grande ingiustizia, sulla quale il Papalagi non riflette, e non vuole riflettere, perché allora dovrebbe riconoscere la sua stessa ingiustizia. Non tutti quelli che hanno molto denaro lavorano molto. (Tutti vorrebbero avere molto denaro senza lavorare). Le cose vanno così: quando un Bianco guadagna abbastanza da poter mangiare, avere la sua capanna e le sue stuoie, e qualcosa di più, con il denaro che ha in più fa immediatamente lavorare il suo fratello. Per sé. Gli da prima il lavoro che ha reso le sue mani sporche e dure. Gli fa portare via gli escrementi che lui stesso ha prodotto. Se è una donna prende per sé una fanciulla che lavori al suo posto. Deve pulire per lei le stuoie sporche, il vasellame per cucinare e le pelli da piedi, deve riparare i panni strappati e non può fare niente che non sia utile alia padrona. Così lui o lei hanno tempo per lavori più importanti, prestigiosi e piacevoli, con i quali le mani rimangono più pulite e i muscoli non si affaticano, e per i quali viene pagato più denaro. Se si tratta di un costruttore di barche, allora l’altro deve aiutarlo a costruire le barche. Del denaro che quello produce, e che quindi dovrebbe avere per intero, gliene prende una parte, la più grande, e non appena può fa lavorare per sé due fratelli, e poi tre; sempre più fratelli devono costruire barche per luì, infine cento o anche di più. Finché non deve fare più niente, oltre a stare steso sulla stuoia, bere e bruciare rotoli da fumare, consegnare la barche pronte e farsi portare il metallo e la carta, che altri producono per lui. Allora si dice: è ricco. Lo invidiano, gli fanno complimenti e gli dicono cose altisonanti. Perché l’importanza di un uomo nel mondo dei Bianchi non è data dalla sua nobiltà o dal suo coraggio o dalla brillantezza della sua mente, ma dalla quantità del suo denaro, da quanto ne può fare ogni giorno, da quanto ne tiene rinchiuso nella sua pesante cassa dì ferro che nessun terremoto può distruggere.

Ci sono molti Bianchi che accumulano il denaro che gli altri hanno fatto per loro, lo portano in un luogo ben protetto, ve ne portano sempre di più finché un giorno non hanno bisogno più di nessun lavoratore, perché adesso è il denaro stesso che lavora per loro. Non ho mai ben capito come ciò sia possibile senza una terribile magia; ma le cose stanno veramente così, il denaro aumenta sempre di più, come le foglie degli alberi, e l’uomo diventa più ricco, anche mentre dorme. Ora, quando uno ha molto denaro, molto di più della maggioranza degli altri, tanto che cento, anzi mille persone, potrebbero rendere con quel denaro il loro lavoro più leggero, questa persona con molto denaro non da niente; mette le sue mani sul metallo rotondo e si mette sopra la carta pesante con l’avidità e la voluttà negli occhi. E se gli chiedi: «Cosa vuoi fare con tutto questo denaro? Su questa terra non puoi fare molto più che vestirti e placare la tua sete e la tua fame», non sa cosa risponderà, oppure ti dice:«Voglio fare più soldi.Sempre di più.E ancora di più » e ti accorgi subito che il denaro lo ha fatto ammalare, che tutti i suoi pensieri sono posseduti dal denaro. È malato e posseduto perché ha dato la sua anima al metallo rotondo e alla carta pesante e non ne può avere mai abbastanza, e non può mai smettere di impossessarsene quanto più può. Non riesce a pensare: «Voglio andare via dal mondo senza sforzi e senza ingiustizie, così come ci sono venuto, perché il Grande Spirito mi ha mandato sulla terra senza il metallo rotondo e la carta pesante». A questo sono pochi a pensarci. I più rimangono nella loro malattia, il loro cuore non sarà mai più sano, e si rallegrano del potere che da loro il molto denaro. Si gonfiano di superbia, come la frutta marcia alla pioggia tropicale.

Con voluttà lasciano a molti dei loro fratelli il lavoro più duro, per mettere a ingrassare il corpo e ben prosperare. Fanno ciò senza che la loro coscienza ne soffra. Si rallegrano delle loro belle e pallide dita, che non si sporcheranno mai più. Non li tormenta e non gli toglie il sonno, il fatto che rubino costantemente la forza degli altri per usarla per se stessi. Non pensano a dare agli altri una parte del loro denaro, per alleggerirgli il lavoro. E così c’è in Europa una metà che deve fare i lavori faticosi e sporchi, mentre l’altra metà lavora poco o quasi per niente. Una metà non ha tempo per starsene al sole, l’altra ne ha molto. Il Papalagi dice: «Non tutti possono avere tanti soldi e starsene contemporaneamente al sole». Con questo principio si arroga il diritto di essere crudele per amore del denaro. Il suo cuore è duro e il suo sangue freddo, finge, mente, è sempre disonesto e pericoloso, quando la sua mano deve afferrare il denaro. E spesso un Papalagi uccide l’altro per denaro. O lo annienta con il veleno delle sue parole, lo stordisce per derubarlo. Per questo si ha poca fiducia, perché tutti sanno qual è la loro debolezza. Mai puoi sapere se un uomo con molto denaro ha un cuore buono, perché può essere anche molto cattivo. Non sappiamo mai come e da dove abbia preso i suoi tesori. Per contro neanche l’uomo ricco sa se l’onore che gli viene tributato sia diretto a lui o solo al suo denaro. Il più delle volte è diretto al suo denaro. Per questo non capisco perché si vergognino tanto quelli che non hanno molto metallo rotondo e carta pesante, e perché invidino il ricco, anziché sentirsi invidiabili.

Non è bello e elegante appendersi al collo una pesante catena di conchiglie, e lo stesso vale per il denaro in grande quantità. Toglie il respiro e la giusta libertà alle membra. Ma nessun Papalagi vuole rinunciare al denaro. Chi non ama il denaro, viene deriso, è sciocco. «La ricchezza -avere cioè molti soldi – da la felicità», dice il Papalagi. E: «II Paese che ha più denaro è il più felice ». Noi tutti, illuminati fratelli, siamo poveri. Il nostro Paese è il più povero che si trovi sotto la luce del sole. Non abbiamo abbastanza metallo rotondo e carta pesante da poter riempire una cassa. Secondo il modo di pensare del Papalagi siamo miseri mendicanti. Eppure! Quando vedo i vostri occhi e li confronto con quelli dell’uomo ricco, allora quelli li vedo opachi, spenti e stanchi, mentre nei vostri risplende la grande luce, vi risplendono la gioia, la forza, la vita e la salute. Ho trovato occhi come i vostri solo tra i bambini del Papalagi, prima che inizino a parlare, perché fino a quel momento non sanno ancora niente del denaro. Quanto ci ha favorito il Grande Spirito, che ci ha protetto dal demonio. Il denaro è un demonio, perché tutto quel che fa è male e causa male. Chi anche tocca soltanto il denaro viene catturato dalla sua magia, e chi lo ama, lo deve servire e consegnargli i suoi poteri e tutte le gioie, finché vive.

Amiamo i nostri nobili costumi, che disprezzano chi chiede in cambio un regalo per l’ospitalità che da, per ogni frutto che offre. Amiamo i nostri costumi, che non tollerano che uno abbia molto più di un altro, o che uno abbia molto e un altro niente. Affinchè il nostro cuore non diventi come quello del Papalagi, che riesce a essere felice e allegro anche se il fratello vicino a lui è triste e infelice. Sopra ogni altra cosa guardiamoci dal denaro. Il Papalagi porge anche a noi il denaro per renderci avidi. Molti di noi sono già stati abbagliati e sono caduti nella grave malattia. Credete alle parole del vostro umile fratello, e siate certi che sono nel vero, quando vi dico che il denaro non rende mai più felici e allegri, e invece porta il cuore e tutto l’uomo in grave confusione; con il denaro non si può mai prestare veramente aiuto, rendere gli altri più lieti, forti e felici. Credetemi, e odierete anche voi il rotondo metallo e la carta pesante come il vostro peggior nemico.


Cap 04
Le molte cose impoveriscono il Papalagi (torna all’indice)

Potete riconoscere il Papalagi anche dal suo tentativo di convincerci che siamo poveri e infelici e abbiamo bisogno di tanto aiuto e compassione perché non possediamo le cose.

Fatemi dire, cari fratelli delle molte isole, cosa è una cosa. La noce di cocco è una cosa, lo scacciamosche, la conchiglia, l’anello, la ciotola per mangiare, l’ornamento del capo, tutte queste sono cose. Ma ci sono due tipi di cose. Ci sono cose che fa il Grande Spirito senza che noi lo vediamo e che a noi uomini non costano né fatica né lavoro, come la noce di cocco, la conchiglia, la banana, e ci sono cose che fanno gli uomini e che costano molta fatica e lavoro, come l’anello, la ciotola per mangiare o lo scacciamosche. Secondo l’uomo bianco ci mancano le cose che lui fa con le sue mani, le cose degli uomini; non si può certo riferire alle cose del Grande Spirito, che possediamo in quantità maggiore di chiunque altro. Gettate il vostro sguardo tutto intorno, fin dove il confine della terra si piega sotto la volta celeste. Tutto è pieno delle grandi cose: la foresta vergine con le sue colombe selvatiche, i colibrì e i pappagalli, la laguna con i suoi cetrioli di mare, conchiglie e languste e gli altri animali d’acqua, la spiaggia con il suo volto chiaro e il morbido manto della sua sabbia, la Grande Acqua che può infuriare come un guerriero e sorridere come una vergine del villaggio, la grande volta celeste, che si trasforma ogni ora che passa e porta grandi fiori che ci danno luce d’oro e d’argento. Vogliamo essere tanto stolti da fare ancora altre cose da aggiungere a quelle sublimi del Grande Spirito? Non riusciremo mai a eguagliarlo, perché il nostro spirito è troppo piccolo e debole al confronto con la potenza del Grande Spirito, e anche la nostra mano è troppo debole al confronto con la sua mano grande e potente. Tutto quel che possiamo fare è di poco conto e non vale la pena parlarne.

Possiamo allungare il nostro braccio grazie a una clava, possiamo ingrandire la nostra mano cava grazie a una ciotola di legno; ma nessun abitante delle Samoa, e nessun Papalagi ha ancora fatto una palma o una radice di kava. Il Papalagi crede però di poter fare queste cose, di essere potente come il Grande Spirito. E migliaia e migliaia di mani non fanno altro dall’alba al tramonto che fabbricare cose. Cose da uomini di cui non sappiamo l’utilità, e non vediamo la bellezza. E il Papalagi pensa a cose sempre nuove. Le sue mani sono febbricitanti, il suo volto diventa grigio come la cenere e la sua schiena curva, ma si illumina per la felicità quando gli riesce di fare una cosa nuova. E subito tutti la vogliono possedere, la adorano, si mettono davanti ad essa e la celebrano nella loro lingua.

Voi, fratelli, vogliate credermi. Sono penetrato nel pensiero del Papalagi e ho visto quale è la sua volontà, come se la illuminasse il sole a mezzogiorno. Poiché dove arriva, distrugge le cose del Grande Spirito, vuole riportare in vita quel che uccide con le sue forze, e così si convince di essere lui stesso il Grande Spirito, perché fa tutte quelle cose. Fratelli, immaginate che tra un’ora venga una grande tempesta che trascini via la foresta con tutta la montagna, con le foglie e gli alberi, che porti via tutte le conchiglie e gli animali della laguna, e che non rimanga più un fiore di ibisco, con cui le nostre fanciulle possano adornare i loro capelli, immaginate che tutto, proprio tutto quel che vediamo scompaia e che non rimanga niente oltre alla sabbia, e che la terra assomigli a una mano aperta, o a una collina, sulla quale scorre la lava incandescente: pensate a quanto piangeremmo di dolore per la palma, la conchiglia, la foresta, per tutto. Dove sono le capanne del Papalagi, in quei luoghi che chiamano città, la terra è deserta proprio come una mano stesa, e anche per questo il Papalagi è impazzito e si è messo a fare il Grande Spirito: per dimenticare quel che non ha. Afferra e raccoglie cose, come il folle raccoglie foglie appassite, e ci riempie la sua capanna, perché è tanto povero e la sua terra così triste. E per questo ci invidia e desidera che anche noi diventiamo poveri quanto lui. È segno di grande miseria, che l’uomo abbia bisogno di tante cose: dimostra così di essere povero delle cose del Grande Spirito. Il Papalagi è povero perché brama tanto le cose. Senza le cose non riuscirebbe a vivere. Dopo che si è fabbricato dalla corazza della tartaruga uno strumento per lisciarsi i capelli, dopo averci sparso dell’olio, costruisce anche una pelle per questo strumento, e per la pelle una piccola cassa, e per la piccola cassa una cassa più grande. Mette tutto in pelli e casse. Ci sono casse per i panni, per quelli di sotto e di sopra, per i panni da bagno, per la bocca e per gli altri panni ancora, casse per le pelli da mani e da piedi, per il metallo rotondo e la carta pesante, per le provviste di cibo e per il libro sacro, per tutto, proprio per tutto. Dove basterebbe una sola cosa, ne fa tante. Se vai in una cucina europea, vedrai tante ciotole per mangiare e strumenti per cucinare, di cui non ci sarà mai bisogno. E per ogni cibo c’è una ciotola diversa, per l’acqua una diversa da quella per le bevande alcoliche, per la noce di cocco una diversa da quella per la colomba. In una capanna europea ci sono tante cose che anche se ogni uomo di un villaggio delle Samoa le caricasse con le sue mani e braccia, non basterebbe tutto il villaggio per portarle via tutte. In una sola capanna ci sono tante cose, che parecchi capi bianchi hanno bisogno di molti uomini e donne che non fanno altro che mettere alloro posto queste cose e pulirle dalla sabbia. E perfino la più nobile vergine dedica molto tempo a contare le sue molte cose, a sistemarle e a pulirle. Fratelli, sapete che non mento, e vi dico tutto così come lo vedo, senza aggiungervi o togliervi niente. Credetemi dunque, ci sono in Europa uomini che puntano la canna di fuoco alla propria fronte e si uccidono, perché preferiscono non vivere piuttosto che vivere senza le cose. Perché il Papalagi inebria in molti modi il suo spirito, e si convince di non poter vivere senza le cose, come non si può vivere senza mangiare.

Non ho mai trovato quindi in Europa una capanna dove potessi dormire su una stuoia senza che niente disturbasse le mie membra nell’atto dello stendersi. Tutte le cose mandavano bagliori o urlavano forte con la bocca del loro colore e io non riuscivo a chiudere gli occhi. Non riuscivo mai a trovare pace, e mai desideravo di più la mia capanna nelle Samoa, dove non ci sono altre cose oltre alla mia stuoia e il rotolo per dormire, dove non mi raggiunge niente oltre al dolce aliseo del mare. Chi ha poche cose si dice povero e ne è afflitto. Non c’è nessun Papalagi che canta e ha occhi felici, pur non avendo altro che la sua stuoia e la ciotola per mangiare, come tutti noi.

Gli uomini e le donne del mondo bianco gemerebbero di malinconia nelle nostre capanne, si affretterebbero a prendere legna dalla foresta, la corazza delle tartarughe, vetro, filo di ferro e pietre colorate e altro ancora, e muoverebbero le mani da mattina a sera, finché la loro casa nelle Samoa non si fosse riempita di cose piccole e grandi. Cose che non si rovinano tutte facilmente, che ogni fuoco e ogni grande pioggia tropicale può danneggiare, e che devono essere ricostruite ogni volta. Più uno è un vero Europeo, più ha bisogno di cose. Per questo le mani del Papalagi non cessano mai di fare cose. Per questo i volti dei Bianchi sono spesso così stanchi e tristi, e solo in pochi arrivano a vedere le cose del Grande Spirito, a giocare sulla piazza del villaggio, a comporre e suonare canti gioiosi o a danzare nelle giornate di sole sotto la luce e a gioire delle loro membra in tanti modi, come succede a tutti noi.

Loro devono fare cose. Devono proteggere le loro cose. Le cose si attaccano a loro e gli strisciano intorno come le piccole formiche della sabbia. Con cuore freddo commettono qualsiasi delitto, per arrivare a ottenere le cose. Si fanno la guerra, non per l’onore virile, o per misurare la loro vera forza, ma solo per le cose. Tuttavia sono tutti consapevoli della grande miseria della loro vita, altrimenti non ci sarebbero tanti Papalagi che godono di grandi onori perché passano la loro vita non facendo altro che immergere peli in succhi colorati per gettare belle immagini su stuoie bianche. Scrivono tutte le cose belle di Dio, il più colorate e sinceramente liete possibile. Con la terra molle danno anche forma a uomini senza panni, a fanciulle con i movimenti belli e liberi delle vergini delle nostre isole, a figure di uomini che brandiscono clave, tendono l’arco o che spiano la colomba selvatica nella foresta. Uomini fatti di terra, per i quali il Papalagi costruisce capanne solenni particolarmente grandi nelle quali la gente giunge da lontano per godere della loro santità e bellezza. Vi stanno davanti, tutti avvolti nei loro molti panni, e rabbrividiscono. Ho visto piangere il Papalagi di fronte a tale bellezza, la bellezza che lui ha perso.

Ora gli uomini bianchi ci vogliono portare i loro tesori – le loro cose – in modo che diventiamo ricchi anche noi. Ma queste cose non sono altro che frecce avvelenate, che causano la morte di chi colpiscono in petto. «Dobbiamo crear loro dei bisogni», ho sentito dire a un uomo che conosce bene il nostro paese. I bisogni sarebbero le cose. «Allora diventeranno più laboriosi» continuò l’uomo astuto. E voleva dire che anche noi dovremmo utilizzare le forze delle nostre mani per produrre cose, cose per noi, ma soprattutto però per il Papalagi. Anche noi dobbiamo diventare stanchi, grigi e curvi. Fratelli delle molte isole, dobbiamo stare all’erta ed essere lucidi, perché le parole del Papalagi sembrano dolci banane, ma sono piene di lance segrete che vogliono uccidere in noi ogni luce e ogni gioia. Non dimentichiamoci che abbiamo bisogno solo di poche cose, oltre a quelle del Grande Spirito. Egli ci ha dato gli occhi per vedere le sue cose. E ci vuole più di un’intera vita per vederle tutte. Non è stata mai detta una menzogna più grossa dalla bocca dell’uomo bianco di questa: che le cose del Grande Spirito sono prive di utilità mentre le sue hanno molta utilità, più di quelle del Grande Spirito. Le loro cose, così numerose, che luccicano e brillano, che cercano di sedurci e conquistarci, non hanno ancora reso più bello il corpo di nessun Papalagi, né i suoi occhi più luminosi, né i suoi sensi più forti. E quindi neanche le sue cose servono a niente, e quel che dice e che ci vuole far fare, appartiene allo spirito maligno e il suo pensiero è imbevuto di veleno.


Cap 05

Il Papalagi non ha tempo (torna all’indice)

Il Papalagi ama il metallo rotondo e la carta pesante, ama mettersi nella pancia molto liquido tratto da frutti uccisi e molta carne di maiale e bue e di altri terribili animali, ma sopra ogni cosa ama ciò che non si può afferrare e che pure è sempre presente: il tempo. E di questo fa grande scalpore e sciocche chiacchiere. Sebbene non ce ne sia mai più di quanto ne può stare tra il levarsi e il cadere del sole, lui non ne ha mai abbastanza.

Il Papalagi è sempre scontento del suo tempo e si lamenta con il grande spirito perchè non gliene ha dato abbastanza. Sì, arriva a bestemmiare Dio e la sua grande saggezza, dal momento che taglia e ritaglia e divide e suddivide ogni nuovo giorno secondo un preciso sistema. Lo taglia proprio come si squarcia con il coltello una molle noce di cocco. E tutte le parti che taglia hanno un nome: secondi, minuti, ore. Il secondo è più piccolo del minuto, questo è più piccolo dell’ora; tutti insieme fanno le ore e bisogna avere sessanta minuti e molti più secondi prima di avere un’ora. Questa è una faccenda molto complicata, che non sono mai riuscito a comprendere bene, perchè mi fa stare male rimanere più a lungo del necessario a riflettere su cose così infantili. Ma il Papalagi fa di questo un grande sapere.

Gli uomini, le donne e persino i bambini piccoli, che appena si reggono sulle gambe, portano nei loro panni una piccola macchina rotonda appesa a una grossa catena che pende dal collo o è legata a un polso con una striscia di pelle, e in essa sanno leggere il tempo. Questa lettura non è affatto facile. La si insegna ai bambini, tenendo loro la macchina vicino all’orecchio perchè si divertano. Questa macchina, che si può facilmente portare su due dita tese, ha all’interno l’aspetto di una di quelle macchine che stanno nella pancia delle grandi navi, che voi tutti conoscete. Ci sono però anche macchine del tempo grandi e pesanti, che stanno ritte in piedi all’interno di una capanna o sono appese sulla punta più alta della casa e si possono vedere da lontano. Quando è trascorsa una parte del tempo, piccole dita poste sulla parte esterna della macchina lo mostrano, e nello stesso momento la macchina si mette a gridare, come se uno spirito battesse con forza il ferro del suo cuore.

Sicuro, in una città europea c’è sempre un gran fragore quando è passata una certa parte del tempo. Quando risuona questo baccano, il Papalagi si lamenta: «E’ un gran guaio che sia già passata un’ora». Di solito, dicendolo fa una faccia triste, come qualcuno che prova un gran dolore, sebbene dopo quella passata subito arrivi fresca fresca un’altra ora. Non ho mai capito bene questa cosa e penso appunto che si tratti di una grave malattia. «Il tempo mi sfugge !» «Il tempo corre come un puledro impazzito !» «Dammi un po’ di tempo !» quelli sono i lamenti più abituali che si sentono dall’uomo bianco. Io dico che deve essere una strana sorta di malattia; perchè anche supponendo che l’uomo bianco abbia voglia di fare una cosa, che il suo cuore lo desideri veramente, per esempio che voglia andare al sole o sul fiume con una canoa o voglia amare ala sua fanciulla, così si rovina ogni gioia, tormentandosi con il pensiero: «non ho tempo di essere contento». Il tempo è lì ma, con tutta la buona volontà lui non lo vede. Nomina mille cose che gli portano via il tempo, se ne sta immusonito e lamentoso al suo lavoro che non ha alcuna voglia di fare, che non gli dà gioia e al quale nessuno lo costringe se non se stesso. Ma se poi all’improvviso si avvede di avere tempo, che il tempo è lì, oppure qualcuno gli dà dell’altro tempo (il Papalagi si danno sempre il tempo a vicenda, sicuro, niente è più altamente considerato di questo), allora gli manca di nuovo la voglia oppure è stanco del suo lavoro e senza gioia. E regolarmente vuole fare l’indomani ciò per cui oggi non ha più tempo. Ci sono Papalagi che affermano di non avere mai tempo. Corrono intorno come dei disperati, come dei posseduti dal demonio e ovunque arrivino fanno del male e combinano guai e creano spavento perchè hanno perduto il loro tempo. Questa follia è uno stato terribile, una malattia che nessun uomo della medicina sa guarire, che contagia molta gente e porta alla rovina. Poichè ogni Papalagi è ossesionato dalla paura diperdere il suo tempo, sa anche molto bene (e non solo lo sa ogni uomo, ma anche ogni donna e ogni bambino piccolo) quanti soli e quante lune si sono levate e sono tramontate dal momento in cui egli ha visto la grande luce per la prima volta. Sicuro, questa è una cosa importante e quindi allo scadere di determinati periodi di tempo, si fanno grandi sacrifici con fiori e grandi banchetti. Quanto spesso mi sono accorto che molti credevano di doversi vergognare per me quando mi domandavano quanti anni avevo e io ridevo e non sapevo rispondere. «Ma devi pur sapere quanti anni hai!» Io tacevo e pensavo: «E’ molto meglio che io non lo sappia». Che età si ha, quante lune si sono viste. Questi calcoli e queste ricerche sono colme di pericolo, perchè con ciò si capisce quante lune dura una vita della maggior parte degli uomini. E così ciascuno di loro sta attentissimo, e quante molte e molte lune sono trascorse, dice «dovrò presto morire». Così non ha più gioia e finisce che muore davvero. Ci sono in Europa soltanto poche persone che hanno veramente tempo. Forse nessuna. Per questo, quindi, la maggior parte di esse corrono per la vita come una pietra che rotola. Tutti o quasi camminano tenendo gli occhi abbassati e dondolando le braccia avanti e indietro per andare più in fretta. Quando si vuole fermarli gridano arrabbiati: «Perchè mi disturbi ? Non ho tempo, vedi piuttosto di usare bene il tuo». Fanno proprio come se un uomo che cammina in fretta avesse più valore e fosse più coraggioso di quello che cammina letamente.

Ho visto un uomo farsi scoppiare la testa, roteare gli occhi e spalancare la bocca come un pesce che sta per morire, diventare rosso e verde e battere le mani e i piedi perchè il suo servo era arrivato un momento più tardi di quanto aveva promesso. Quel minuto, lo spazio di un respiro, era per lui una perdita tanto grave che non si sarebbe mai potuta compensare. Il servo dovette abbandonare la sua capanna, il Papalagi lo scacciò e gli gridò: «Mi hai rubato abbastanza tempo. Un uomo che nn bada al tempo non è degno di averne».

Una sola e unica volta incontrai un uomo che aveva molto tempo, che non si lagnava mai di averne perduto; ma era povero e sudicio e abbandonato. La gente gli girava al largo e nessuno aveva rispetto di lui. Io non compresi questo modo di fare, perchè il suo passo era tranquillo e senza ansia e i suoi occhi avevano un quieto sorriso, silenzioso e gentile. Quando glielo domandai il suo volto si piegò in una smorfia e disse con tristezza: «Io non ho mai saputo far uso del mio tempo, perciò sono un povero diavolo disprezzato da tutti». Quest’uomo aveva tempo, ma neppure lui era felice.

Il Papalagi impiega tutte le sue energie e consuma tutti i suoi pensieri per rendere più pieno il suo tempo. Utilizza l’acqua e il fuoco, la tempesta, i lampi del cielo, tutto per tratenere il tempo. Si mette delle ruote di ferro sotto i piedi e dà ali alle sue parole, sempre per avere più tempo. E Perchè tutta questa gran fatica? Che cosa ne fa alla fine il Papalagi del suo tempo? Non sono mai riuscito a capirlo del tutto, sebbene lui faccia sempre tante parole e tanti gesti come se il Grande Spirito lo avesse invitato a un ricevimento. Io credo che il tempo gli sfugga come una serpe sfugge da una mano bagnata, proprio perchè lui cerca di tenerlo così stretto. Non gli lascia modo di riprendersi. Gli sta appresso e gli dà letteralmente la caccia con le mani tese, non gli consente alcuna sosta perchè possa stenersi al sole.

Il tempo deve essergli sempre accanto, deve dirgli e cantargli qualcosa. Ma il tempo è silenzioso e ama la pace e la calma e lo stare distesi su una stuoia. Il Papalagi non ha compreso il tempo, non lo riconosce per quello che è e perciò lo maltratta in quel modo con i suoi rozzi costumi. O miei cari fratelli! Noi non ci siamo mai lamentati del tempo, lo abbiamo sempre amato; quando veniva non gli siamo mai corsi appresso, non abbiamo mai voluto né costringerlo, né disfarlo. Per noi non è mai stato fonte di pena o di fastidio. Si faccia avanti quello fra noi che non ha tempo! Ciascuno di noi ha tempo in quantità; ma noi però siamo anche contenti e soddisfatti di lui, non ce ne occorre più di quanto ce ne è dato e ne abbiamo sempre quanto basta. Sappiamo di arrivare sempre abbastanza in tempo alle nostre mete e sapiamo anche che il Grande Spirito ci chiama secondo la sua volontà, anche se non abbiamo contato il numero delle nostre lune. Dobbiamo liberare il povero, smarrito Papalagi dalla sua follia, dobbiamo ridargli il suo tempo. Dobbiamo distruggere la sua piccola macchina del tempo e annunciargli che dal levarsi al calare del sole c’è molto più tempo di quanto un uomo può aver bisogno.


Cap 06

Il Papalagi ha impoverito Dio (torna all’indice)

Il Papalagi ha un modo di pensare particolare ed estremamente contorto. Pensa sempre a come qualcosa possa essergli utile e a come averne ragione. Pensa sempre a una sola persona, non a tutte quante. E questa persona è lui stesso. Se un uomo dice: «La mia testa è mia e non appartiene ad altri che a me », le cose stanno proprio così, e nessuno può obiettare niente. Nessuno ha più diritti sulla propria mano della persona stessa cui appartiene.

Fino a questo punto do ragione al Papalagi. Ma lui dice anche: la palma è mia. Perché si trova proprio davanti alla sua capanna. Proprio come se l’avesse fatta crescere lui stesso. La palma però non è affatto sua. Non lo sarà mai. È la mano di Dio che dalla terra si tende verso di noi. Dio ha molte mani. Ogni albero, ogni fiore, ogni filo d’erba, il mare, il cielo con le sue nuvole, tutte queste sono mani di Dio. Possiamo afferrare queste mani ed esserne contenti, ma non possiamo dire: la mano di Dio è la mia mano. Questo però è quel che fa il Papalagi. «Lau» nella nostra lingua significa mio, e anche tuo: sono quasi la stessa cosa. Nella lingua del Papalagi invece non ci sono parole con significati più diversi di «mio» e «tuo». È mio quel che appartiene unicamente e solamente a me. Tuo è quel che appartiene unicamente e solamente a te. Per questo Il Papalagi dice di tutto quel che si trova vicino alla sua capanna è mio. Nessuno vi ha diritto eccetto lui stesso. Ovunque tu vada dai Papalagi, ovunque tu veda qualcosa nelle sue vicinanze, sia esso un frutto, un albero, acqua, foresta, un mucchietto di terra, c’è sempre qualcuno che dice: «Questo è mio! Guardati dal prendere quel che è mio!». Se tu lo fai, ti urla contro, ti chiama ladro, una parola che rappresenta una grande vergogna, e solo perché hai osato toccare il «mio» del tuo prossimo. Accorrono gli amici e i servitori delle supreme autorità ti mettono in catene e ti portano in prigione, e sei disprezzato per tutta la vita. Affinchè uno non prenda le cose che un altro ha dichiarato essere le sue, viene stabilito molto precisamente con leggi speciali cosa appartiene e non appartiene a uno. In Europa ci sono persone che non fanno altro che sorvegliare che nessuno violi queste leggi, e che al Papalagi non venga tolto niente di quel che lui ha preso per sé. Il Papalagi vuole convincersi così di aver davvero conquistato un diritto, come se Dio gli avesse veramente ceduto la sua proprietà per sempre. Come se gli appartenessero davvero la palma, l’albero, i fiori, il mare, il cielo e le sue nuvole.

Il Papalagi deve fare tali leggi e avere tali guardiani per il suo molto «mio», in modo che chi ha poco «mio», o non ne ha affatto, non possa prendere niente del suo «mio». Perché dove molti prendono molto per sé, ce ne sono molti che non hanno niente tra le mani. Non tutti conoscono i trucchi e i segnali segreti per avere molto «mio», ed è necessario un particolare tipo di valore che non sempre va d’accordo con quel che chiamiamo onore. E può benissimo essere che quelli che hanno poco tra le mani siano i migliori di tutti i Papalagi.

Ma sicuramente non ce ne sono molti. I più derubano Dio senza ritegno. Non sanno fare diversamente. Spesso non si accorgono nemmeno di fare qualcosa di male: proprio perché tutti fanno così senza darsi pensiero e provare vergogna. Alcuni ricevono il loro molto «mio» dalle mani del padre al momento della nascita. A ogni modo Dio non ha quasi più niente, gli uomini gli hanno preso quasi tutto facendone il loro «mio» e «tuo». Non può più dare a tutti nella stessa misura il suo sole, che era destinato a tutti, perché alcuni pretendono di averne più degli altri. Nelle belle e grandi piazze assolate siedono spesso solo in pochi, mentre i più catturano miseri raggi di sole standosene all’ombra.

Dio non può più provare un’autentica gioia, perché non è più il grandissimo Signore nella sua grande casa. Il Papalagi lo rinnega dicendo: «È tutto mio». Non arriva a comprendere quel che fa, anche se sta tanto a pensare. Al contrario, ritiene che il suo operato sia onesto e giusto. Ma davanti a Dio è disonesto e ingiusto. Se pensasse giustamente, dovrebbe sapere che nulla di quel che non possiamo trattenere ci appartiene. E che in fondo non possiamo trattenere niente. Si renderebbe anche conto che Dio ha dato la sua grande casa perché tutti vi trovino posto e gioia. E sarebbe anche grande abbastanza, e ci sarebbe per ognuno un posticino al sole e una piccola gioia, e per ognuno ci sarebbe una piccola ombra di palma e sicuramente un posticino su cui poggiare i piedi. Come è volontà di Dio e come ha stabilito. Come avrebbe potuto Dio aver dimenticato anche uno solo dei suoi figli! E invece sono in tanti a cercare il piccolo posticino che Dio ha lasciato libero per loro. Poiché il Papalagi non ascolta gli ordini di Dio e fa da solo le sue leggi, Dio gli manda molti nemici per le sue proprietà. Gli manda l’umidità e il caldo per distruggere il suo «mio», l’invecchiamento, il marcire e l’imputridire. Da anche al fuoco e alla tempesta il potere di distruggere i suoi tesori. E soprattutto insinua nell’anima del Papalagi il timore.La paura per quello che lui ha preso per sé.

Il sonno del Papalagi non è mai proprio profondo, deve essere vigile perché non gli venga tolto di notte quel che ha messo insieme di giorno. Le sue mani e i suoi sensi devono sempre stare a controllare i confini del suo «mio». E questo «mio» lo tormenta e si prende gioco di lui dicendo: «Poiché mi hai tolto a Dio, io ti torturo e ti procuro molti dolori».

Ma Dio ha inflitto al Papalagi punizioni ben peggiori della sua paura. Gli ha dato la lotta tra quelli che hanno poco o niente «mio» e quelli che si sono presi un grande «mio». Questa lotta è dura e accanita e viene combattuta notte e giorno. È la lotta che tutti subiscono e che a tutti toglie la gioia di vivere. Quelli che hanno, devono dare, ma non vogliono dare niente. Quelli che non hanno niente, vogliono avere anche loro, ma non ricevono niente. Ma anche questi sono solo raramente difensori di Dio. Sono solo arrivati troppo tardi al saccheggio o sono stati incapaci o gli è mancata la possibilità. Sono in pochissimi a riflettere sul fatto che chi è stato derubato è Dio. E solo molto raramente si sente il richiamo di un uomo giusto, che esorta a rimettere tutto nelle mani di Dio.

Fratelli, cosa pensate di un uomo che ha una capanna grande abbastanza da accogliere un intero villaggio delle Samoa, e che non offre al viandante il suo tetto per una notte? Cosa pensate di un uomo che tiene in mano un grappolo di banane e non ne da neanche una all’affamato? Vedo l’indignazione nei vostri occhi e un grande disprezzo sulle vostre labbra. E pensate: questo è il modo di fare del Papalagi a ogni ora. E anche se ha cento stuoie, non ne da neanche una a chi non ne ha nessuna. E per di più fa all’altro una colpa di non averne. E se la sua capanna fosse piena fino al tetto di provviste, molte di più di quante potrebbero mangiarne in anni lui e la sua famiglia, non andrebbe alla ricerca di quelli che non hanno niente da mangiare e che sono pallidi e affamati. E ci sono molti Papalagi che sono pallidi e affamati.

La palma si spoglia delle sue foglie e dei suoi frutti quando sono maturi. Il Papalagi vive come se la palma volesse trattenere le sue foglie e i suoi frutti: «Sono miei! Non ne potete avere e non potete mangiarne!» Come farebbe allora la palma a portare nuovi frutti? La Palma ha molta più saggezza di un Papalagi.

Anche tra noi ci sono molti che posseggono più degli altri, e rendiamo onore al capo, che ha molte stuoie e molti maiali. Ma quest’onore vale solo per lui, e non per le stuoie e i maiali, che gli abbiamo dato noi stessi per manifestare la nostra gioia e lodare il suo valore e la sua saggezza. Il Papalagi invece ammira nel fratello le molte stuoie e i maiali, e si preoccupa poco del suo valore e della sua saggezza. Un fratello senza stuoie e senza maiali gode di ben poco onore. Poiché le stuoie e i maiali non possono andare da soli dai poveri e dagli affamati, il Papalagi non vede perché dovrebbe portarli lui ai suoi fratelli. Poiché egli non onora i fratelli, ma solo le loro stuoie e i loro maiali, e per questo li tiene per sé. Se amasse e onorasse i suoi fratelli e non fosse in lotta con loro per il «mio» e per il «tuo», allora porterebbe a questi le stuoie per farli partecipare al suo grande «mio». Dividerebbe con loro la sua stuoia, anziché gettarli nella notte buia. Ma il Papalagi non sa che Dio ci ha dato la palma, il banano, il delizioso taro, tutti gli uccelli della foresta e i pesci del mare perché tutti noi potessimo gioirne e goderne. Non solo per pochi, mentre gli altri soffrono di stenti e di miseria. Colui nelle cui mani Dio ha messo molto, deve farne dono al fratello, in modo che la frutta non marcisca nella sua mano. Perché Dio tende a tutti gli uomini le sue molte mani; non vuole che uno abbia più dell’altro o che uno dica:«lo sto al sole, a te spetta l’ombra ». A tutti noi spetta il sole. Dove Dio tiene tutto tra le sue giuste mani non c’è lotta né miseria. Lo scaltro Papalagi vorrebbe darci a intendere: «A Dio non appartiene niente! A te appartiene quel che riesci a tenere tra le mani!». Tappiamoci le orecchie e non ascoltiamo questi discorsi. A Dio appartiene tutto!


Cap 07

Il Grande Spirito è più forte della macchina (torna all’indice)

Il Papalagi fa molte cose che noi non sappiamo fare, che non comprenderemo mai, che per la nostra mente non sono che pietre pesanti. Cose per le quali non proviamo grande desiderio, ma che possono mettere in grande stupore i più deboli fra noi e porli in falsa umiltà. Perciò osserviamo senza vergogna o timore le meravigliose arti del Papalagi.

Il Papalagi ha il potere di tramutare ogni cosa in sue lance e in sue clave. Si prende il lampo, il fuoco e l’acqua e li sottomette alla sua volontà. Li rinchiude e dà loro ordini. E loro ubbidiscono. Queste forze sono i suoi più forti guerrieri. Egli conosce il grande segreto di rendere il lampo accecante ancor più rapido e luminoso, il caldo fuoco ancor più caldo, l’acqua veloce ancor più veloce. Il Papalagi pare davvero essere colui che ha bucato il cielo, il messaggero di Dio, poichè domina il cielo e la terra a suo piacimento. E’ pesce e uccello e verme e cavallo nello stesso tempo. Passa sotto i più grandi fiumi d’acqua dolce. Scivola fra rocce e montagne. Si lega ruote di ferro sotto i piedi e corre più veloce del più veloce destriero. Si solleva nel cielo. Sa volare. l’ho visto muoversi sull’acqua come un gabbiano. Possiede una grande canoa con la quale può viaggiare sull’acqua e ha anche una canoa per viaggiare sotto il mare. E con un’altra canoa viaggia da nuvola a nuvola. Cari fratelli, io rendo testimonianza delle verità con le mie parole e voi dovete credere al vostro servo, anche se le vostre menti conoscono dubbi su ciò che io vi annuncio. Poichè grandi e ammirevoli sono le cose del Papalagi e io temo che ci siano molti fra noi che potrebbero sentirsi deboli davanti a tanto potere.

E da dove potrei cominciare se volessi raccontarvi tutto ciò che i miei occhi hanno visto con grande stupore? Voi tutti conoscete la grande canoa che il bianco chiama piroscafo. Non è forse come un grandissimo, possente pesce? Come è possibile ch’esso navighi da isola a isola più velocemente di quanto il più forte dei nostri giovani rematori sa fare con una canoa? Avete visto alla sua estremità la grande pinna della coda quando è in movimento? Essa si muove e si piega esattamente come quella dei nostri pesci nella laguna. Questa grande pinna spinge avanti la grande canoa. E come questo sia possibile, è il grande segreto del Papalagi. Il segreto è nella pancia del gran pesce. Là sta la macchina che dà alla grande pinna la grande forza. Una forza che un uomo non potrebbe mai avere.

La macchina è l’arma più potente del Papalagi. Dategli il più robusto albero di ifi della giungla: la mano della macchina abbatte il tronco, come una madre spezza il frutto di taro per darlo ai suoi bambini. La machina è la più grande meraviglia d’Europa. La sua mano è forte e non si stanca mai. Se vuole taglia cento, mille canoe in un giorno. L’ho vista tessere panni, così fini e delicati come quelli usciti dalle mani più delicate di una giovane vergine. Lavorava dalla mattina a notte fonda. Sputava un panno, fino a che ne aveva fatto un mucchio alto quanto una collina. Miserevole e pietosa è la nostra forza in confronto alla forza possente della macchina. Il Papalagi è un mago. Canti una canzone, e lui raccoglie il tuo canto e te lo ridà in qualunque momento lo vuoi sentire. Ti mette davanti una lastra di vetro e ci imprigiona la tua immagine. E te la rifà mille volte, tutte le volte che vuoi.

Ma ho visto magie ben più grandi di questa. Vi ho detto che il Papalagi afferra i lampi del cielo. Lui li afferra e la macchina li deve divorare e distruggere, e di notte li sputa di nuovo in mille stelle, stelline, lucciole e minuscole lune. Per lui sarebbe cosa da nulla cospargere durante la notte le nostre isole di luce, così che possano essere chiare e luminose come di giorno. Spesso manda fuori di nuovo i lampi per suo uso e ordina loro la strada e dà loro notizie da portare a fratelli lontani. E i lampi gli ubbidiscono e portano con sè notizie. Il Papalagi ha rafforzato tutte le sue membra. Le sue mani arrivano oltre i mari e fino alle stelle e i suoi piedi superano il vento e le onde. Il suo orecchio ode ogni sussurro a Savaii e la sua voce ha ali come un uccello. Il suo occhio vede nella notte. vede anche dentro il suo corpo, come se la sua carne fosse trasparente come l’acqua, e vede ogni sporcizia sul fondo di quest’acqua.

Tutto ciò di cui sono stato testimone e che vi racconto è soltanto una piccola parte di quello che i miei occhi hanno potuto vedere con grande ammirazione. E, credetemi, l’ambizione del bianco di compiere sempre nuovi miracoli è grande, e a migliaia essi stanno alzati a pensare nella notte e studiano come possono riportare una nuova vittoria su Dio.

Perchè questa è la verità: il Papalagi vorrebbe vincere Dio. Vorrebbe abbattere il Grande Spirito e prendere egli stesso le sue forze e i suoi poteri. Ma ancora Dio è più forte e più potente del più grande Papalagi e delle sue macchine e ancora è Lui che decide chi di noi e quando deve morire. Ancora il sole, l’acqua e il fuoco servono in primo luogo Lui, Dio. E ancora nessun bianco ha potuto decidere quando deve salire la luna o ha saputo dirigere i venti a sua volontà. Fintanto che ciò rimane così, quei miracoli sono poca cosa. E debole è colui fra di noi, o fratelli, che si sottomette a questi miracoli dei Papalagi; che adora il bianco per i suoi miracoli e per le sue opere e si dichiara per questo povero ed indegno, perchè le sue mani e il suo spirito non sanno fare le stesse cose. Poichè per quanto tutte le meraviglie del Papalagi possano colmarci di stupore, osservate alla limpida luce del sole, esse significano poco più che l’intaglio di una clava e l’intreccio di una stuoia, e ogni suo fare assomiglia solo al gioco di un bambino nella sabbia poichè non c’è nulla, che il bianco ha fatto, che possa anche solo lontanamente uguagliare i miracoli del Grande Spirito.

Splendide e possenti e ben decorate sono le capanne dei grandi signori, che essi chiamano palazzi; e ancor più belle le alte capanne che essi hanno eretto in onore di Dio, che spesso si levano più alte delle cime del monte Tofua. Tuttavia ciò è rozzo e grossolano e senza il caldo sangue della vita in confronto a un semplice arbusto d’ibisco con la sua fioritura color del fuoco; in confronto alla cima svettante di ogni palma o a una foresta dei nostri coralli, ebbra di forme e di colori.

Mai finora il Papalagi ha intessuto un panno così fine come Dio tesse in ogni ragnatela, e mai una macchina ha lavorato in modo così sottile e abile come la più piccola formichina della sabbia che vive nelle nostre capanne. Il bianco vola sulle nuvole come un uccello, ve l’ho detto. Ma i grandi gabbiani volano ancora più alti e più veloci dell’uomo e in tutte le tempeste, e le ali nascono dal loro corpo, mentre le ali del Papalagi sono soltanto un inganno e si possono spezzare facilmente e farlo cadere. Così tutti i suoi miracoli hanno dunque una piccola, nascosta imperfezione; e non c’è macchina che non abbia bisogno di un custode e di qualcuno che l’aiuti a muoversi e ciascuna porta dentro di sé la sua segreta maledizione. Poichè anche se la forte mano della macchina fa tutto, essa consuma con il suo lavoro anche l’amore che si nasconde in ogni cosa che esce dalle nostre mani.

Che cosa varrebbe per me una canoa o una clava tagliata dalla macchina, un oggetto freddo e senza sangue che non sa parlare del suo lavoro, che non sa sorridere quando è finito e che non posso portare alla madre o al padre perchè se ne rallegrino? Come posso amare la mia canoa come l’amo, se una macchina me la potesse rifare in ogni momento senza che io vi metta mano? Questa è la grande maledizione della macchina: che il Papalagi non ama più nulla, perchè può sempre rifare subito ogni cosa. Per accogliere i suoi miracoli privi di amore, egli deve nutrirli del proprio cuore. Il Grande Spirito vuole decidere esso stesso le forze del cielo e della terra e distribuirle secondo il suo giudizio. Questo non è mai concesso all’uomo. Non impunemente il bianco tenta di fare di se stesso pesce e uccello, cavallo e verme. E il guadagno è molto più piccolo di quanto egli stesso osi confessarsi. Quando io cavalco attraverso un villaggio, arrivo certo più in fretta; ma quando io vado a piedi, vedo di più, e gli amici mi chiamano nelle loro capanne.

Arrivare veloci a una meta è di rado un vero vantaggio. Il Papalagi vuole sempre arrivare in fretta alla meta. La maggior parte delle sue macchine servono solo allo scopo di arrivare più in fretta. E’ giunto alla meta e già un’altra lo chiama. E così il Papalagi passa nella vita senza un momento di riposo, dimentica sempre più la gioia di camminare e di vagabondare e la letizia del muoversi verso la meta che ci viene incontro, che non andiamo a cercare. Perciò io vi dico: la macchina è un bel giocattolo dei grandi bambini bianchi e tutte le sue arti non ci devono spaventare. Il Papalagi non ha ancora costruito una macchina che lo preservi dalla morte. Non ha ancora fatto niente che sia più grande di ciò che Dio fa in ogni ora. Tutte le macchine e le altre sue arti e magie non hanno ancora prolungato la vita di un uomo, non lo hanno neppure reso più lieto e felice. Teniamoci perciò alle meravigliose macchine e alle grandi arti di Dio e disprezziamo il bianco quando gioca a fare Dio.


Cap 08

Del lavoro del Papalagi e del modo in cui vi si smarrisce (torna all’indice)

Ogni Papalagi ha un lavoro. È difficile spiegare cosa sia. È un qualcosa che si dovrebbe avere una gran voglia di fare, ma il più delle volte non se ne ha. Avere un lavoro significa: fare sempre la stessa identica cosa. Fare una cosa tanto spesso, che la si potrebbe fare anche ad occhi chiusi e senza fatica. Se con le mie mani non facessi altro che costruire capanne o intrecciare stuoie, ebbene questo costruire o intrecciare sarebbe il mio lavoro. Ci sono lavori femminili e maschili. Lavare panni nella laguna e lucidare pelli da piedi sono lavori da donne, guidare una nave sul mare o sparare ai piccioni nella boscaglia è un lavoro da uomini. La donna lascia quasi sempre il proprio lavoro appena si sposa, mentre l’uomo solo allora comincia a praticarlo seriamente.
Il padre da la propria figlia solo se il pretendente ha un buon lavoro. Un Papalagi senza lavoro non si può sposare. Ogni uomo bianco deve assolutamente avere un lavoro. Per questa ragione ogni Papalagi deve decidere, molto prima di quando un giovane da noi si fa tatuare, che lavoro vuoi fare per tutta la vita. E questo significa fare un lavoro.
Si tratta di una cosa molto importante, e l’uomo bianco ne parla tanto, quanto parla di quel che vuole mangiare il giorno dopo. Se per esempio vuoi diventare intrecciatore di stuoie, allora il Bianco più anziano porta il giovane da un uomo che non fa altro che intrecciare stuoie. Quest’uomo mostrerà al giovane come si intreccia una stuoia. Gli deve insegnare a fare una stuoia senza che abbia bisogno di guardare. Spesso ci vuole molto tempo prima che il giovane impari,ma non appena è pronto va via e si dice: ha un lavoro. Se più tardi il Papalagi si accorge che preferirebbe costruire capanne piuttosto che intrecciare stuoie, si dice: ha sbagliato lavoro, che è come mancare il bersaglio. È un grave dolore, perché va contro i loro costumi mettersi di punto in bianco a fare un altro lavoro. Va contro l’onore di un vero Papalagi dire: non ci riesco, non mi va; oppure: le mie mani non mi ubbidiscono.
Il Papalagi ha tanti lavori,quante sono le pietre nel fondo della laguna. Di ogni attività fa un lavoro. Se uno raccoglie le foglie appassite dell’albero del pane fa un lavoro. Se uno pulisce le stoviglie, fa un altro lavoro. Tutto è lavoro se si fa qualcosa. Con le mani o con la testa. Anche pensare o guardare le stelle sono lavori. Non c’è niente che possa fare un uomo che il Papalagi non possa trasformare in lavoro.
Se un Bianco dice: sono uno che scrive lettere, significa che questo è il suo lavoro, e cioè non fa altro che scrivere una lettera dopo l’altra. Non arrotola sulla trave la sua stuoia per dormire, non va in cucina per arrostirsi un frutto, non pulisce le sue stoviglie. Mangia pesci, ma non va pescare, mangia frutta, ma non raccoglie mai un frutto dall’albero. Scrive una lettera dietro l’altra perché questo è un lavoro. Proprio come tutte le attività che ho descritto di per sé sono lavori: rimettere a posto le stuoie per dormire, arrostire frutta, pulire stoviglie, catturare pesci o raccogliere frutta.
Solo il lavoro da pieni poteri sulla propria attività. E così va a finire che la maggior parte dei Papalagi sanno fare solo quello che è il loro lavoro, e il capo di tutti, che ha molta saggezza nella testa e molta forza nelle braccia, non è capace di riporre la sua stuoia da notte sulla trave o di pulire le sue stoviglie. E così accade anche che colui che è capace di scrivere una lettera di molti colori, non deve per forza esser capace di andare in canoa sulla laguna e viceversa. Avere un lavoro significa: saper soltanto correre, assaggiare, annusare, combattere: saper fare sempre solo una cosa. In questo saper-fare-una-cosa-sola c’è un grave difetto e un grave pericolo: perché può capitare a tutti di dover condurre una canoa sulla laguna. Il Grande Spirito ci ha dato le mani perché possiamo raccogliere i frutti dagli alberi, per prendere nella palude le radici del taro. Ce le ha date per proteggere il nostro corpo da tutti i nemici, e per la nostra gioia nella danza, nel gioco e in tutti gli altri divertimenti. Sicuramente non ce le ha date solo per costruire capanne, raccogliere frutti o strappare radici, ma perché ci servano e difendano in ogni momento e in ogni situazione. Questo però il Papalagi non lo comprende.
Ma che il suo agire è sbagliato, completamente sbagliato, e contro tutti i comandamenti del Grande Spirito, lo vediamo dal fatto che ci sono Bianchi che non riescono più a correre, che mettono molto grasso sulla pancia come i maiali, perché devono stare sempre fermi a causa del loro lavoro, che non riescono più a sollevare un giavellotto e a lanciarlo, perché la loro mano sa solo tenere l’osso per scrivere; stanno seduti nell’ombra tutto il giorno a non far altro che scrivere lettere,e non sanno più portare un cavallo, perché stanno a guardare le stelle o a dissotterrare pensieri dalla loro testa. Raramente un Papalagi adulto sa saltare e correre come un bambino. Camminando trascina il suo corpo e va avanti come se fosse costantemente bloccato. Maschera e rinnega questa debolezza dicendo che correre e saltare non si addice a un uomo dabbene. Ma questo è un falso motivo: le sue ossa sono diventate rigide, e bloccate, e tutti i suoi muscoli hanno perso la gioia perché il lavoro li ha condannati al sonno e alla morte. Anche il lavoro è un demone che distrugge la vita. Un demone che da all’uomo allettanti consigli,e che però gli beve il sangue dal corpo.
Il lavoro danneggia il Papalagi anche in altri modi e si presenta come demone anche in altre forme. È una gioia costruire una capanna, abbattere gli alberi nella foresta e ridurli in pali, piantare i pali, intrecciarvi sopra il tetto e alla fine, quando i pali e le travi e tutto il resto è legato ben bene con i fili di cocco, ricoprire tutto con le foglie secche della canna da zucchero. Non c’è bisogno che vi stia a dire che gioia sia per gli abitanti del villaggio costruire la casa del capo e partecipare alla grande festa con i figli e le mogli. Cosa direste, se solo pochi uomini potessero andare nel bosco ad abbattere alberi per farne dei pali. E se questi pochi non potessero aiutare a piantare i pali, perché il loro lavoro consiste solo nell’abbattere gli alberi e farne dei pali? E se quelli che piantano pali non potessero intrecciare il tetto, perché il loro lavoro è solo piantare pali? E se quelli che intrecciano il tetto non potessero aiutare a ricoprirlo con foglie di canna da zucchero, perché il loro lavoro consiste solo nell’intrecciare tetti? E se tutti questi non potessero aiutare a raccogliere dalla spiaggia i ciottoli rotondi per ricoprire il pavimento, perché possono farlo solo quelli che lo fanno per lavoro? E se infine potessero festeggiare e inaugurare la capanna solo quelli che vi abiteranno, e non tutti quelli che l’hanno costruita? Voi ridete, e direste sicuramente: «Se potessimo partecipare solo a una parte dei lavori, senza fare tutto quello per cui è necessaria la forza di un uomo, la nostra sarebbe una gioia a metà, anzi non lo sarebbe affatto». E prendereste sicuramente per folle chi pretendesse da voi di utilizzare le vostre mani solo per uno scopo, proprio come se tutte le altre membra e tutti gli altri sensi del vostro corpo fossero paralizzati e morti. Questa è la causa della grande infelicità del Papalagi.
È bello prendere acqua al ruscello, anche più volte al giorno;ma chi deve farlo dall’alba al tramonto, tutti giorni e tutte le ore, finché gli bastano le forze, scaglierà via in un impeto d’ira il secchio, pieno di collera per le catene con le quali è tenuto il suo corpo. Perché niente è più pesante che dover fare sempre la stessa cosa. Ci sono però Papalagi che non hanno il privilegio di raccogliere acqua alla stessa fonte, giorno dopo giorno: questa potrebbe essere per loro ancora una gran gioia. E invece no:ci sono Papalagi che non fanno altro che alzare o abbassare la loro mano, oppure la spingono contro un bastone, e che questo lo fanno in una stanza sporca, senza luce e senza sole. Non fanno niente che richieda l’impiego della forza,o che dia un po’di gioia; sono costretti a sollevare, abbassare, a battere contro una pietra per seguire il pensiero di un Papalagi: perché così si mette in moto o si regola una macchina che taglia anelli bianchi e rigidi, o scudi per il petto, conchiglie per i pantaloni o altre cose ancora. Ci sono in Europa più uomini che palme sulle nostre isole, il cui volto è grigio come la cenere, perché non conoscono la gioia nel lavoro, perché il lavoro distrugge ogni godimento, perché dal loro lavoro non nasce nessun frutto e neanche una foglia, di cui poter gioire. Per questo negli uomini da lavoro cova un odio profondo.
Tutti quanti hanno nel cuore qualcosa che somiglia a un animale tenuto in catene, che si ribella ma non riesce a liberarsi. E tutti confrontano con gli altri il lavoro che fanno, colmi di invidia e gelosia: si parla di lavori superiori e inferiori, anche se tutti i lavori sono solo attività a metà. Perché l’uomo non è solo mano, o solo piede, o solo testa: è tutto insieme. Mano,piede e testa vogliono stare unite. Solo se tutte le membra e i sensi agiscono insieme, solo allora un uomo può gioire in cuor suo in modo sano, e mai può farlo se solo una parte ha vita e tutte le altre devono rimanere morte. Questo porta confusione, disperazione o malattia.
A causa del suo lavoro il Papalagi vive confuso. Non lo ammetterà mai, e sicuramente, se mi sentisse dire tutte queste cose, direbbe che sono io il folle, a voler fare il giudice, io che non ho mai avuto un lavoro né ho mai lavorato come un Europeo. Ma il Papalagi non ci ha detto la verità, e non ci ha spiegato il motivo per cui dovremmo lavorare di più di quanto voglia Dio per saziarci, per avere un tetto e divertirci alle feste del villaggio. Questo lavoro può sembrare ben poca cosa, e la nostra esistenza povera di lavori.
Ma colui che è un uomo e un fratello giusto delle molte isole, fa il suo lavoro con gioia, mai con sofferenza. Piuttosto non lo fa per niente. Ed è questo che ci fa diversi dai Bianchi. Il Papalagi quando parla del suo lavoro sospira come se un peso lo schiacciasse. I giovani delle Samoa si recano cantando nei campi di Taro, e cantando le vergini lavano i panni alla fonte zampillante.
Il Grande Spirito sicuramente non vuole che ingrigiamo per i nostri lavori,e che strisciamo nella laguna come piccoli rettili. Vuole che rimaniamo fieri e giusti in ogni cosa che facciamo e sempre uomini con occhi gioiosi e membra sciolte.


Cap 09

Dei luoghi della finta vita e delle molte carte (torna all’indice)

Molto avrebbe da dirvi, cari fratelli del grande mare, il vostro umile servo, per riferirvi la verità sull’Europa. Il mio discorso dovrebbe essere come un torrente che scorre da mattina a sera, e la vostra verità continuerebbe ad essere incompleta, perché la vita del Papalagi è come il mare, di cui non si riesce mai a vedere l’inizio e la fine. Ha tante onde quante ne ha la grande acqua; infuria e strepila, sorrìde e sogna. E cosi come un uomo con la sua mano non riuscirà mai a svuotare il mare, io con il mio piccolo spirito non posso portarvi il grande mare dell’Europa.

Ma c’è una cosa di cui non voglio trascurare di parlarvi, perché come il mare non può stare senza acqua, così la vita dell’Europa non può fare a meno della vita finta e delle molte carte. Se le togli tutte e due al Papalagi, questi diventa come il pesce che il frangente ha gettato sulla terraferma: riesce solo a sussultare con le sue membra, ma non può più nuotare e muoversi come gli piace.

Il luogo della vita finta.

Non è facile descrivervi questo luogo che il Bianco chiama cinema, in modo che possiate riconoscerlo chiaramente con i vostri occhi. In ogni località europea c’è questo luogo misterioso che gli uomini amano più di una missione. Già da bambini ci pensano sognanti. Il cinema è una capanna, più grande della grande capanna del capo di Upolu, molto più grande. E buia anche nei giorni più chiari, così buia che non si riesce a vedere niente. Si rimane abbagliati quando si entra, e ancor più abbagliati quando se ne esce. Vi strisciano dentro le persone, vanno tastoni lungo le pareti, finché arriva una donna con una scintilla di fuoco e li conduce dove c’è ancora posto. I Papalagi stanno accovacciati nell’oscurità vicinissimi l’uno all’altro, la stanza buia è piena di persone in silenzio. Ognuno sta seduto su una stretta tavoletta; tutte le tavolette stanno nella direziono della stessa parete. Dal fondo di questa parete, come da una profonda voragine, escono fuori con impeto forti rumori e ronzii, e appena gli occhi si sono abituati all’oscurità, si distingue un Papalagi che da seduto lotta con una cassa. Vi sbatte sopra con le mani ben allargate, su molte piccole lingue bianche e nere che la grande cassa tira fuori, e ogni lingua manda alte grida, ognuna con un suono diverso a ogni tocco, provocando uno stridore folle e selvaggio, come se tutto il villaggio fosse in lite.

Questo fracasso dovrebbe distogliere e indebolire i nostri sensi, per farci credere a quel che vediamo e non farci dubitare che esista realmente. Davanti, sulla parete, risplende un raggio di luce, come se vi brillasse un vivido chiaro di luna, e nella luce si vedono uomini, veri uomini, con l’aspetto e i nei panni di veri Papalagi, che si muovono e vanno su e giù, che corrono, ridono, saltano, proprio come si vede ovunque in Europa.

È come l’immagine riflessa della luna nella laguna. È la luna, ma non lo è. Anche questa è solo un’immagine. Tutti muovono la bocca, non si può dubitare che parlino, ma non si sente né suono né parola, per quanto si cerchi di ascoltare e sia angosciante non sentire niente. E questo è anche il motivo principale per cui quel Papalagi colpisce così la cassa: deve far credere che gli uomini sulla parete non si possono sentire per il fracasso. E per questo compaiono di tanto in tanto alla parete delle scritte, che annunciano cosa ha detto o dirà il Papalagi. Tuttavia questi uomini sono solo apparenza, non sono veri. Se si cercasse di afferrarli ci si accorgerebbe che sono fatti solo di luce e non si lasciano prendere. Stanno lì solo per mostrare al Papalagi tutte le sue gioie e sofferenze, le sue follie e debolezze.

Vede gli uomini e le donne più belli proprio vicini a sé. Anche se sono muti, ne può vedere i movimenti e la luce degli occhi. Sembrano illuminare proprio lui e parlargli.

Vede indisturbato e da vicino i capi più importanti, con i quali non potrebbe mai stare, come fossero suoi pari. Prende parte a molti banchetti, ricevimenti e altre feste, sembra che stia sempre lì a mangiare e festeggiare insieme.

Ma vede anche come il Papalagi si prende la donna di un altro. O come una fanciulla è infedele al suo ragazzo.

Vede un uomo violento afferrare la gola di un ricco signore, affondare le dita profondamente nella carne del collo, e schizzare fuori delle orbite gli occhi del ricco signore, lo vede morire e vede come l’uomo violento strappa dai suoi panni il metallo rotondo e la carta pesante.

Mentre gli occhi del Papalagi stanno a guardare queste cose divertenti e atroci, deve starsene seduto e zitto; non può rimproverare la donna infedele, non può accorrere in aiuto del ricco signore per salvarlo. Sta a guardare tutto questo con gran voluttà, come se non avesse cuore. Non prova né orrore né avversione. Osserva tutto come se lui stesso fosse un’altra creatura. Perché chi sta a guardare è sempre convinto di essere meglio degli uomini che vede tra i raggi di luce, e di poter scampare alle follie che gli vengono mostrate. Muto e trattenendo il fiato tiene gli occhi appiccicati alla parete, e appena vede un cuore valoroso e un’immagine nobile, se la prende nel cuore e pensa: questa è la mia immagine.

Siede completamente immobile sulla sua panca di legno e fissa la ritta parete levigata sulla quale non ha vita che un ingannevole raggio di luce, gettato da un mago attraverso una stretta fessura della parete opposta, sul quale prende vita tanta finta vita. Trascinare dentro di sé queste false immagini che non hanno una vita reale: è questo che procura tanto piacere al Papalagi. In questa stanza buia può insinuarsi in una vita falsa, senza vergogna e senza che gli altri uomini lo vedano in viso. I poveri possono giocare a fare i ricchi, e i ricchi i poveri, l’ammalato può fingersi sano, il debole fingersi forte. Ognuno può nell’oscurità prendere per sé e vivere nella finta vita quel che nella vita reale non ha vissuto né mai vivrà. Dedicarsi a questa finta vita è diventata una grande passione del Papalagi, una passione talvolta così forte da far dimenticare la vita reale. Questa passione è insana perché un uomo giusto non può volere una vita d’apparenza in una stanza oscura, ma una calda vita reale alla luce del sole. La conseguenza di questa passione è che molti Papalagi una volta fuori dal luogo della finta vita, non la riescono più a distinguere dalla vita reale, e tutti confusi si credono ricchi se sono poveri, e belli se sono brutti. Oppure compiono misfatti che nella loro vita reale non avrebbero mai fatto perché non sanno più distinguere quel che è reale da quello che non lo è.È una condizione molto simile a quella che conoscete bene nell’Europeo, quando ha bevuto troppa Kava e crede di camminare sull’acqua.

Anche le molte carte producono una specie di ubriacatura e vertigine nel Papalagi. Cosa sono le molte carte? Immaginatevi una stuoia di tapa sottile e bianca ripiegata, tagliata e piegata di nuovo, con scritte fitte su tutte le parti, molto fitte: queste sono le molte carte, o, come li chiama il Papalagi, i giornali. In queste carte si trova la grande saggezza del Papalagi. Ogni mattina e sera deve tenere la testa tra queste carte, per riempirla di nuovo e saziarla, per pensare meglio e avere dentro molte cose: come il cavallo che corre ancora meglio se mangia molte banane, tanto da esserne pieno. Quando il signore giace ancora sulla stuoia, si affrettano già messaggeri per il Paese e distribuiscono le molte carte. È la prima cosa cui tende la mano dopo aver allontanato da sé il sonno.

Legge. Ficca gli occhi in quello che raccontano le molte carte. E tutti i Papalagi fanno lo stesso: anche loro leggono. Leggono cosa hanno detto i massimi capi e oratori d’Europa ai loro incontri. Tutto viene riportato precisamente sulla stuoia, anche se è estremamente folle. I panni che avevano addosso, cosa hanno mangiato, come si chiama il loro cavallo, se soffrono di elefantiasi o se hanno deboli pensieri: tutto viene descritto accuratamente. Quel che raccontano, nel nostro Paese suonerebbe cosi: il giudice di Matautu stamattina dopo aver ben dormito ha mangiato un avanzo di Taro della sera precedente, poi è andato a pescare, a mezzogiorno è tornato di nuovo alla sua capanna, si è steso sulla sua stuoia e ha cantato e letto la Bibbia fino alla sera. Sua moglie Sina ha prima allattato il figlio, poi è andata a fare il bagno e sulla strada del ritorno ha trovato un bel fiore di Pua, con il quale ha adornato i suoi capelli. E così via. Viene comunicato tutto quello che avviene e cosa fanno e non fanno gli uomini; i loro pensieri buoni e cattivi, e anche se hanno macellato un pollo o un maiale o se si sono costruiti una nuova canoa. Non avviene niente in tutto il paese, che questa stuoia non racconti coscienziosamente.

Il Papalagi lo chiama: «Essere ben informato su tutto». Vuoi essere informato su tutto quello che avviene nel suo Paese da un tramonto all’altro. Si infuria se gli sfugge qualcosa. Ingoia tutto avidamente. Anche se si tratta di atrocità di ogni tipo, che chi è sano di mente preferisce dimenticare in fretta. E invece proprio queste cose brutte e dolorose vengono descritte fin nei minimi particolari, più di quelle belle, come se non fosse molto più importante e gratificante comunicare il bene piuttosto che il male.

Quando leggi il giornale non c’è bisogno che tu vada fino ad Apolima, Manono o Savaii per sapere cosa fanno, pensano o festeggiano i tuoi amici. Puoi startene steso tranquillamente sulla tua stuoia e le molte carte ti raccontano tutto. Questo sembra molto bello e comodo, ma è un’idea sbagliata. Perché se quando incontri il tuo fratello avete tutti e due la testa nelle molte carte, nessuno avrà da dire all’altro niente di nuovo o di particolare, perché ognuno ha nella testa le stesse cose, e allora state zitti oppure vi ripetete solo quel che hanno detto le carte. Ma è sempre un’esperienza più forte gioire insieme di una festa o soffrire per un dolore, anziché farsi raccontare tutto da bocche estranee senza aver visto niente con i propri occhi. Ma a danneggiare il nostro spirito non è tanto il fatto che il giornale ci racconti cosa succede, ma che ci dica anche cosa dobbiamo pensare di questo e di quello, dei nostri grandi capi o di quelli degli altri Paesi, di tutto quel che succede e di quel che fanno gli uomini.

Il giornale vorrebbe che tutti pensassero come se avessero la stessa testa, e combatte contro la mia testa e il mio pensiero. Vuole che ognuno abbia la sua stessa testa e il suo stesso pensiero. E ci riesce. Se la mattina leggi le molte carte, a mezzogiorno sai cosa ha in testa e cosa pensa ogni Papalagi. Il giornale è anche una specie di macchina: produce quotidianamente molti nuovi pensieri, molto più numerosi di quanto possa fare una sola testa. Ma la maggior parte dei pensieri sono deboli, senza fierezza e senza forza, riempiono la nostra testa di tanto nutrimento, ma non la rafforzano. Potremmo riempire la nostra testa di sabbia con gli stessi risultati. Il Papalagi colma la sua testa con quest’inutile nutrimento di carta. Prima che sia riuscito ad allontanarne uno, ne assorbe già uno nuovo. La sua testa è come le paludi delle mangrove, che soffocano nella loro stessa fanghiglia e nelle quali non cresce più niente di verde e fecondo, dove salgono solo odori disgustosi e ronzano insetti pungenti.

Il luogo della finta vita e le molte carte hanno reso il Papalagi quel che è: un uomo debole e confuso, che ama ciò che non è reale, e che non riesce più a riconoscere quel che è reale, che confonde l’immagine della luna con la luna stessa e uno stuoia scritta con la vita stessa.


Cap 10

La grave malattia del pensare (torna all’indice)

Quando il Papalagi pronuncia la parola «spirito», i suoi occhi si fanno grandi, rotondi e fissi; gonfia il petto, respira profondamente e si erge come un guerriero che ha battuto il nemico. Perché è particolarmente orgoglioso di questo «spìrito». Qui non si tratta dello spirito grande e potente che il missionario chiama «Dio», di cui noi tutti non siamo che una povera immagine, ma del piccolo spirito, quello che appartiene all’uomo e che fa i suoi pensieri. Se da qui vedo l’albero di mango dietro la chiesa della missione, non entra in azione lo spirito, perché lo vedo soltanto. Ma se riconosco che è più grande della chiesa della missione, allora ciò è spirito. Quindi non devo solo vedere qualcosa, devo anche sapere qualcosa. Il Papalagi esercita questo sapere dall’alba al tramonto.

Il suo spirito è sempre come un tubo di fuoco carico o come un amo gettato. E perciò prova compassione per noi, popoli delle molte isole, perché non adoperiamo nessuna conoscenza.Secondo lui siamo poveri di spirito e stupidi come l’animale della giungla. È certamente vero che adoperiamo poco la conoscenza, quel che il Papalagi chiama «pensare». Ma c’è da chiedersi se stupido è chi non pensa molto, o chi pensa troppo. Il Papalagi pensa in continuazione.La mia capanna è più piccola della palma. La palma si piega sotto la tempesta. La tempesta parla con voce grossa. Così pensa: naturalmente a suo modo. Pensa però anche a se stesso. Sono cresciuto poco. Il mio cuore è sempre felice alla vista di una fanciulla. Amo molto viaggiare. Eccetera.

Ciò è divertente e buono, e può essere che abbia anche una qualche utilità nascosta per chi ama fare questo gioco nella sua testa. Ma il Papalagi pensa così tanto che pensare per lui è diventata un’abitudine, una necessità, addirittura un obbligo. Riesce solo con difficoltà a non pensare e a vivere con tutte le sua membra insieme. Spesso vive solo con la testa, mentre tutti i suoi sensi sono profondamente addormentati. Anche se va in giro, parla, mangia e ride. Il pensare, i pensieri, che sono i frutti del pensare, lo tengono prigioniero. È una specie di ubriacatura dei suoi pensieri.

Quando il sole splende bene nel cielo, pensa subito: «Come splende bene!». E sta sempre lì a pensare come splende bene. Ciò è sbagliato. Sbagliatissimo. Folle. Perché quando splende è meglio non pensare affatto. Un abitante delle Samoa intelligente distende le sue membra alla calda luce e non sta a pensare niente. Accoglie in sé il sole non solo con la testa, ma anche con le mani, i piedi, le gambe, la pancia, con tutte le membra. Lascia che la pelle e le membra pensino da sole. E queste da parte loro pensano, anche se in modo diverso dalla testa.

Il pensare sbarra il cammino al Papalagi in molti modi, come un blocco di lava che non si può scansare. Pensa lietamente, ma poi non ride; pensa cose tristi, ma non piange. Ha fame, ma non coglie frutti di taro. È per lo più un uomo con i sensi che vivono in inimicizia con lo spirito: una persona che è divisa in due parti. La vita del Papalagi somiglia molto alla situazione di un uomo che fa un viaggio in barca alla volta di Savaii e che quando ha appena lasciato il porto pensa: quanto mi ci vorrà per arrivare a Savaii? Pensa, ma non vede il piacevole paesaggio che attraversa con il suo viaggio. Ora gli si presenta sulla sinistra il dorso di una montagna. E non appena il suo occhio lo coglie, non può fare a meno di pensare: «Cosa ci sarà dietro la montagna? Ci sarà una baia profonda o stretta?».

Preso da questi pensieri dimentica di cantare insieme agli altri le canzoni del mare; non sente neanche gli allegri scherzi delle fanciulle. Si è appena lasciato alle spalle il dorso della montagna e la baia, quando lo tormenta un nuovo pensiero: ci sarà una tempesta entro sera? Proprio così, se entro sera ci sarà una tempesta. Cerca nel cielo chiaro scure nuvole. Pensa sempre alla tempesta che si potrebbe abbattere su di lui. La tempesta non arriva e raggiunge Savaii senza danni. Però è come se non avesse compiuto il viaggio, perché i suoi pensieri erano sempre lontani dal suo corpo e fuori dalla barca. Sarebbe potuto benissimo rimanere nella sua capanna a Upolu.

Uno spirito che tanto ci tormenta è un demone, e non capisco perché dovrei amarlo tanto. Il Papalagi ama e ammira il suo spirito e lo nutre con i pensieri della sua testa. Non gli fa mai soffrire la fame, e quando i pensieri si divorano tra loro non lo rimprovera neanche tanto. Fa molto rumore con i suoi pensieri, e li fa diventare chiassosi come bambini maleducati. Si comporta come se i suoi pensieri fossero preziosi come i fiori, le montagne e le foreste. Parla dei suoi pensieri come se al confronto il valore di un uomo o l’umore lieto di una fanciulla non contassero niente. Agisce come se ci fosse da qualche parte un comandamento che obbliga a pensare molto. Come se questo comandamento venisse da Dio. Quando le palme e le montagne pensano, non fanno molto rumore. E sicuramente se le palme pensassero con tanto chiasso e intensità come il Papalagi, non avrebbero belle foglie verdi e frutti dorati (perché è un dato di fatto, il pensare rende velocemente vecchi e brutti). Cadrebbero prima di maturarsi. Ma credo proprio che pensino molto poco. E ci sono ancora molti modi per pensare e tanti bersagli per la freccia dello spirito. Triste è il destino del pensatori, che vanno lontano con il pensiero. Cosa accadrà alla prossima aurora? Cosa avrà in mente per me il Grande Spirito quando arriverò nel mondo di là? Dove ero quando i messaggeri del più grande di tutti gli spiriti mi donarono l’anima? Questo pensare è tanto inutile quanto voler vedere il sole a occhi chiusi. Non va.

E non è neanche possibile pensare fino in fondo l’inizio e la fine delle cose. Se ne accorgono coloro che ci provano. Stanno accovacciati sempre nello stesso punto come un martin pescatore, dalla giovinezza fino all’età adulta. Non vedono più il sole, il vasto mare, le care fanciulle, nessuna gioia, niente di niente, e ancora niente. La kava stessa non ha più nessun sapore per loro, e alle danze nella piazza del villaggio se ne stanno in disparte e guardano per terra. Non vivono, anche se non sono morti. Sono stati colpiti dalla grave malattia del pensare. Questo pensare dovrebbe far grande ed elevata la testa. Quando uno pensa molto e velocemente, in Europa si dice che ha una gran testa. E anziché avere compassione di queste grandi teste, le ammirano molto. I villaggi ne fanno i loro capi, e una gran testa ovunque arrivi deve pensare pubblicamente, il che suscita in tutti un gran piacere e ammirazione. Quando una gran testa muore tutto il paese è in lutto e si levano molti lamenti per quel che è andato perduto. Si fa una riproduzione in pietra della grande testa morta e la si mette davanti agli occhi di tutti sulla piazza del mercato. Proprio così, si fanno queste teste di pietra molto più grandi di quanto lo erano in vita, in modo che il popolo le possa ben ammirare e ricordarsi della propria piccola testa.

Se si chiede a un Papalagi: «Perché pensi tanto?» questi risponde: «Perché non voglio e non mi piace rimanere sciocco». È sciocco ogni Papalagi che non pensa; anche se invece è saggio chi non pensa e tuttavia trova la sua strada. Credo però che questa sia solo una scusa e che il Papalagi sia spinto da un desiderio cattivo. Penso che il vero scopo del suo pensare sia scoprire l’origine dei poteri del Grande Spirito. Cosa che egli chiama in modo altisonante «comprendere». Comprendere significa avere una cosa così vicina davanti agli occhi da ficcarci dentro il naso. Questo ficcare il naso e frugare in tutte le cose è una brama volgare e spregevole dell’uomo. Prende la scolopendra, vi ficca una piccola lancia, le strappa una gamba. Che aspetto ha una zampa divìsa dal suo corpo? Come era fissata al corpo? Rompe la zampa per misurarne lo spessore. È importante, è essenziale. Stacca un pezzetto di carne grande quanto un granello di sabbia e lo mette sotto un lungo tubo che ha un potere misterioso e fa vedere molto meglio. Con quest’occhio grande e potente guarda dentro ogni cosa, che siano lacrime, un brandello di pelle, un capello, assolutamente tutto. Taglia tutte queste cose finché non è più possibile romperle e tagliarle. Anche se questo punto è senz’altro il più piccolo, è anche il più essenziale di tutti, perché è l’accesso alla conoscenza suprema, quella che possiede solo il Grande Spirito. Questo accesso è vietato anche al Papalagi, e i suoi migliori occhi magici non ci hanno ancora guardato dentro.

Il Grande Spirito non si fa carpire mai i suoi segreti. Nessuno si è mai arrampicato più in alto della palma che si stringeva tra le gambe. Una volta giunti in cima si deve tornare indietro:viene a mancare il tronco per arrampicarsi ancora più in alto. Il Grande Spirito non ama neanche la curiosità degli uomini, per questo ha steso grandi liane senza inizio e senza fine su tutte le cose. Per questo chiunque segua il pensare fino in fondo si accorgerà sicuramente che alla fine rimane sempre come uno stupido, e deve lasciare al Grande Spirito le risposte che non può dare lui stesso. Lo ammettono anche i Papalagi più valorosi e saggi. Tuttavia la maggior parte degli ammalati di pensiero non riescono a staccarsi dalla fonte del loro godimento, e a furia di percorrere le vie del pensiero l’uomo perde l’orientamento, proprio come se andasse per la foresta vergine senza seguire nessun sentiero. Si perdono nei loro pensieri finché improvvisamente i loro sensi non riescono più a distinguere un uomo da un animale.

Affermano che l’uomo è un animale e che l’animale è umano. È male e pericoloso quindi che tutti i pensieri, che siano buoni o cattivi, vengano gettati immediatamente su sottili stuoie bianche.

«Vengono stampati » dice il Papalagi. Il che vuoi dire che quel che quei malati pensano viene trascritto con una macchina misteriosa e prodigiosa, che ha mille mani e la forte volontà di molti grandi capi. E non solo per una o due volte, ma molte, infinite volte, sempre gli stessi pensieri. Si pressano poi insieme, in fasci, molte stuoie di pensieri – «libri » li chiama il Papalagi – che poi vengono inviate in tutte le parti del grande Paese. Tutti quelli che ricevono questi pensieri vengono subito contagiati. Divorano queste stuoie di pensieri come fossero dolci banane; si trovano in ogni capanna, se ne riempiono casse intere, e vecchi e giovani stanno a rosicchiarli come topi la canna da zucchero. È per questo motivo che in così pochi riescono ancora a pensare ragionevolmente, con pensieri naturali come quelli di qualsiasi onesto abitante delle Samoa. Allo stesso modo vengono ficcati nella testa dei bambini tanti pensieri quanti ce ne entrano. Ogni giorno devono per forza ingoiare la loro dose di stuoie di pensieri. Solo i più sani si sbarazzano di questi pensieri o li lasciano passare attraverso il loro spirito come attraverso una rete.I più però sovraccaricano la loro testa con così tanti pensieri che non avanza più spazio e non vi penetra più nessun raggio di luce.

Questo si chiama:«formare lo spirito» e lo stato permanente di tale confusione: «cultura», cosa ampiamente diffusa. Cultura significa: riempire la propria testa con le conoscenze fino all’orlo estremo. L’uomo colto conosce la lunghezza della palma, il peso della noce di cocco, i nomi di tutti i suoi grandi capi e la data delle loro guerre. Conosce la grandezza della luna, delle stelle e di tutti i Paesi. Conosce per nome ogni fiume, e ogni animale e pianta. Conosce tutto, proprio tutto. Poni una domanda a una persona colta, e ti spara addosso la risposta ancor prima che tu chiuda bocca. La sua testa è sempre carica di munizioni, è sempre pronta a sparare.

Ogni Europeo dedica la più bella età della vita a fare della sua testa la canna da fuoco più veloce. Chi non vuole partecipare, viene obbligato. Ogni Papalagi deve conoscere, deve pensare. L’oblio – disfarsi dei pensieri – non viene esercitato, quando invece sarebbe l’unica cosa che potrebbe guarire tutti gli ammalati di pensiero; e quindi sono in pochissimi a sapervi ricorrere. I più si portano dietro, nella testa, un carico che affatica il corpo per quanto è pesante, lo indebolisce e fa appassire prima del tempo. Dobbiamo quindi, cari fratelli non pensanti – dopo quello che vi ho annunciato in tutta onestà – emulare davvero il Papalagi e imparare a pensare come lui? Io dico:«No!».

Perché non dobbiamo e non possiamo fare niente che non ci fortifichi il corpo e non renda migliori e più lieti i nostri sensi. Ci dobbiamo guardare da tutto quel che ci vorrebbe togliere la gioia di vivere, da tutto quello che mette in lite la nostra testa con il nostro corpo. Il Papalagi ci dimostra con il suo esempio che il pensare è una grave malattia, una malattia che diminuisce di molto il valore di un uomo.


Cap 11

Il Papalagi vuole condurci nella sua oscurità (torna all’indice)

Cari fratelli, un tempo eravamo nell’oscurità e nessuno di noi conosceva la luce folgorante del Vangelo; ci aggiravamo smarriti come bambini incapaci di ritrovare la capanna, poiché il nostro cuore ignorava il grande amore e le nostre orecchie erano chiuse alla parola divina. Il Papalagi ci ha donato questa luce. È venuto a liberarci dall’oscurità. Ci ha portato Dio e ci ha insegnato ad amarlo: per questo lo abbiamo venerato come portatore della luce, come messaggero del Grande Spirito che il Bianco chiama Dio.
Il Papalagi divenne nostro fratello, e con lui dividemmo tutti i frutti che la nostra terra onestamente ci offre. Per portarci il Vangelo l’uomo bianco non ha lesinato alcuno sforzo, pure se, come bambini ostinati, rifiutavamo il suo insegnamento. Per la sua fatica, per ciò che ha sopportato a causa nostra, gli siamo grati e vogliamo festeggiarlo sempre e onorarlo come portatore di luce.
Il missionario del Papalagi in primo luogo ci ha insegnato chi è Dio e ci ha distolto dalle nostre divinità, che ha definito idoli folli, poiché non contenevano in sé il Dio vero. E allora non adoriamo più le stelle della notte, la veemenza del fuoco e del vento, ma ci siamo volti al suo Dio, il grande Dio del cielo. Tramite il Papalagi, per prima cosa Dio ci ha tolto tutte le armi e le canne da fuoco, perché potessimo vivere in pace da bravi cristiani.
Tutti conoscono le parole di Dio e il suo massimo comandamento: dobbiamo amarci reciprocamente e non ucciderci. Abbiamo lasciato le armi e da allora non c’è più guerra nelle nostre isole e ognuno considera l’altro suo fratello. Abbiamo compreso che i suoi comandamenti sono giusti, poiché ora tutti i villaggi vivono in pace, mentre un tempo l’inquietudine era palpabile e gli orrori infiniti. Pur non essendo il vero Dio e il suo amore ancora in ciascuno di noi, gli siamo grati perché i nostri spiriti da quando lo veneriamo come padrone della terra si sono fortificati. Le sue sagge parole, che sempre più ci colmano del suo grande spirito, le ascoltiamo con rispetto e gratitudine. Ho detto che il Papalagi ci ha recato la luce fulgente che ha infiammato i nostri cuori e ricolmato i sensi di gioia e gratitudine.
Il Papalagi ha avuto la luce prima di noi: l’aveva già quando i più vecchi di noi non erano ancora nati. Ma tiene la luce nella mano solo per illuminare gli altri: lui stesso e il suo corpo sono nell’oscurità e il suo cuore è lontano da Dio, nonostante con le labbra lo chiami.
Figli delle molte isole, dovervi dire queste cose mi rattrista profondamente, ma non dobbiamo e non vogliamo lasciarci ingannare dal Papalagi e neppure farci trascinare nella sua oscurità: ci ha portato Dio, ma lui stesso non ne ha compreso la parola e la dottrina. L’ha compresa con la bocca e la testa, ma non col cuore. La luce non l’ha investito tanto da poterne mandare un riflesso e perché tutto splenda nella luce del suo cuore. Egli non percepisce più la falsità che divide le sue parole dal suo corpo: ciò vuoi dire che nessun Papalagi è più in grado di pronunciare la parola di Dio dal profondo del cuore; quando lo fa, torce il viso come fosse stanco o se quelle parole non lo riguardassero.
Tutti i bianchi si dicono figli di Dio e si confermano nella fede con storie scritte dai loro capi. Pur avendo appreso la grande dottrina e conoscendolo, Dio gli è del tutto estraneo. Persino quelli che hanno il compito di parlare di Dio nelle splendide capanne erette in suo onore, non lo tengono dentro di loro e le parole scivolano nel vuoto portate dal vento. I suoi ministri non parlano solo di Dio, le loro parole si infrangono sugli scogli incessantemente e nessuno le ascolta più.
Le mie parole invece non faranno adirare Dio: quando noi figli delle isole adoravamo stelle e fuoco non eravamo peggiori di quanto sia il Papalagi oggi, perché eravamo nel buio e non conoscevamo la luce. Ma il Papalagi questa luce la conosce e tuttavia vive nell’oscurità ed è cattivo. Il Papalagi raramente pensa a Dio: solo se lo travolge una tempesta o se si sta spegnendo la fiammella della vita pensa che ci sia una forza sopra di lui. Di giorno Dio lo distoglie dai suoi strani piaceri e dalle sue gioie: se la luce divina fosse veramente in lui, si dovrebbe gettare nella sabbia per la vergogna. Il suo spirito è colmo solo di odio, avidità, ostilità.
Il Papalagi dice di essere cristiano. Potessimo noi chiamarci cristiani per sempre. Cristiano è chi ama il grande Dio e i fratelli e solo dopo se stesso. L’amore deve essere dentro di noi come il sangue, come la testa e le mani. Le parole Cristo, Dio e amore il Papalagi le ha solo in bocca: ci fa schioccare la lingua e fa un gran clamore, ma il suo cuore e il suo amore non si piegano a Dio, ma solo alle cose, al metallo rotondo e alle carte pesanti, al piacere ed alla macchina. La luce non lo colma, solo un’avarizia spasmodica del suo tempo e la follia del suo mestiere.
Cari fratelli, il Papalagi ha oggi più idoli di quanti ne abbiano mai avuti noi, se per idoli intendiamo ciò che adoriamo e sortiamo nel cuore come la cosa più cara. Per il Papalagi Dio lon è la cosa più importante e non fa la sua volornà, piuttosto quella del demonio. È per questo che dico che ci ha portato il Vangelo come merce di scambio, per prendersi i nostri frutti e ciò che la terra di più bello ci offre. Io lo credo capace di tutto questo perché ho scoperto molto marciume e molto peccato nel suo cuore e so che Dio ama più noi di lui.
Lui ci chiama selvaggi, vale a dire uomini con i denti di animale e senza cuore, ma Dio gli entra negli occhi e glieli strappa per costringerlo a vedere. Dio ha detto al Papalagi: «Sii ciò che vuoi; non ti do più comandamenti». Allora l’uomo bianco è andato e si è fatto conoscere. Vergogna, orrore! Ci ha tolto le armi con lingua tonante e parola orgogliosa e insieme a Dio ha detto: «Amatevi gli uni gli altri». E adesso? Avete avuto, fratelli, la tragica notizia, l’accadimento senza Dio, senza amore e senza luce: l’Europa si sta annientando.
Alla fine il Papalagi confessa: «Non ho alcun Dio in me». Si sta per spegnere la luce nella sua mano. Sulla sua strada è buio e si sente l’orribile battere d’ali dei pipistrelli e il grido dei gufi.
Fratelli, ho il cuore colmo di amore per Dio e per voi: lui mi ha dato una debole voce per potervi dire queste cose, perché resistiamo e non siamo sopraffatti dalla lingua insidiosa del Papalagi. Vogliamo gridargli: «Rimani lontano da noi, con le tue voglie e i tuoi pensieri, con l’accumulare ricchezza nelle mani e nella testa, con la frenesia di sovrastare tuo fratello, con l’insensatezza del tuo fare, con il mulinare delle mani, con il curioso pensare e sapere, con le follie che rendono inquieto il tuo sonno sulla stuoia. Non ci serve tutto questo, ci bastano le nobili gioie che Dio ci ha abbondantemente concesso. Possa Dio non accecarci con la sua luce e non farci smarrire, ma renda chiara la nostra strada cosi da poter camminare nella luce per raccoglierne lo splendore e amarci l’un l’altro».

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