La costruzione della mente

Occhi nel calore Jackson Pollock

Occhi nel calore – Jackson Pollock

Sul ruolo svolto dalla natura nella formazione della mente, il quadro emergente smentisce un’idea convenzionale, recentemente sintetizzata da Louis Menand. Secondo Menand, «ogni aspetto della vita ha un fondamento biologico esattamente in uno stesso senso, ossia, non esisterebbe se non fosse biologicamente possibile. Dopo di che, i giochi sono aperti».

Più in particolare, alcuni studiosi hanno recentemente formulato un’interpretazione di alcune ricerche sui geni e sul cervello, secondo la quale la natura avrebbe un ruolo profondamente limitato nella formazione della mente.

La loro posizione poggia su due argomentazioni: quella che l’antropologo di Stanford Paul Ehrlich ha chiamato «scarsità dei geni», e le ampie e ben documentate scoperte sulla «plasticità del cervello». Secondo l’argomentazione basata sulla scarsità dei geni, questi ultimi non potrebbero essere molto importanti per la nascita della mente perché il genoma contiene soltanto, approssimativamente, 30 mila geni: troppo pochi per spiegare la complessità del cervello, con i suoi miliardi di cellule e connessioni neuronali, e ancor più insufficienti per spiegare la complessità della mente. «Data questa proporzione», sostiene Ehrlich, «è piuttosto difficile che i geni possano controllare qualcosa di più degli aspetti più generali del comportamento umano».

Secondo l’argomentazione basata sulla plasticità del cervello, i geni non possono essere tanto importanti perché il cervello, durante il suo sviluppo, è molto flessibile. Ad esempio, mentre gli adulti che perdono l’emisfero sinistro probabilmente perderanno per sempre la capacità di parlare, un bambino che perda l’emisfero sinistro può recuperare la capacità di parlare, anche in assenza di emisfero sinistro. Questa flessibilità è pervasiva e arriva a raggiungere il livello delle singole cellule. Le cellule cerebrali – i neuroni – di nuova formazione a volte possono modificare la loro funzione in base al contesto, e non hanno un destino stabilito nell’istante in cui nascono.

Una cellula che normalmente contribuisce a darci il tatto può (nelle giuste circostanze) essere reclutata dal sistema visivo e accettare segnali provenienti dall’occhio. A partire da questa elevata plasticità cerebrale alcuni ipotizzano che i geni abbiano un ruolo marginale, come fossero osservatori di scarso rilievo.

Tutto questo, a mio parere, è un errore. E certamente vero che il numero dei geni è limitato in confronto al numero dei neuroni, e che il cervello durante il suo sviluppo è fortemente plastico. Ciononostante la natura – sotto forma di geni – ha un effetto enorme sullo sviluppo del cervello e della mente. Finalmente si stanno chiarendo le linee generali dei meccanismi con cui i geni costruiscono il cervello e stiamo anche iniziando a vedere come, nel dare forma al cervello, i geni lascino spazio al ruolo essenziale dell’ambiente. Anche se resta ancora molto lavoro da fare, sta diventando altrettanto chiaro che per comprendere l’interazione tra natura ed educazione dovremo rinunciare ad alcune certezze radicate da tempo.

Come costruire il cervello

Nei nove mesi di sprint che intercorrono dal concepimento alla nascita – il frenetico dividersi, specializzarsi e migrare delle cellule che gli scienziati chiamano embriogenesi – organi come il cuore o il rene si sviluppano raggiungendo una serie di fasi sempre più mature. Contrariamente a quanto sosteneva una teoria del XVII secolo chiamata preformismo, gli organi del corpo non si trovano preformati in miniatura nell’ovulo fecondato; al momento del concepimento non vi sono né un minuscolo cuore, né un minuscolo cervello.

L’ovulo fecondato contiene invece delle informazioni: i tre miliardi di nucleotidi del dna che compongono il genoma umano. Queste informazioni, copiate nel nucleo di ciascuna cellula di nuova formazione, guidano il processo graduale ma potente di successive approssimazioni che da forma a ciascun organo del corpo umano. Il cuore, ad esempio, inizia come un semplice strato di cellule che gradualmente si piega su se stesso fino a formare un tubo; dal tubo spuntano delle protuberanze, dalle quali spuntano altre protuberanze, e ogni giorno il cuore che sta crescendo assomiglierà un po’ di più al cuore di una persona adulta.

Ancor prima dell’alba della genetica moderna, i biologi avevano capito che qualcosa di simile avviene nello sviluppo del cervello: l’organo del pensiero e del linguaggio si forma in modo sostanzialmente analogo al resto del corpo. Anche il cervello, inizialmente, si sviluppa da un semplice strato di cellule che gradualmente si piega su se stesso; da questo spuntano delle protuberanze, che col tempo si differenziano assumendo forme più complesse. Tuttavia, aver pensato per duemila anni la mente come qualcosa di indipendente dal corpo ci impedisce di apprezzare l’importanza di questa osservazione apparentemente ovvia.

L’idea che il cervello sia drasticamente diverso da altri sistemi fisici ha una lunga tradizione; può essere vista come una versione modernizzata dell’antica credenza secondo cui la mente e il corpo sarebbero completamente separati, ma è insostenibile. Il cervello è un sistema fisico. Anche se ha funzioni diverse da quelle di altri organi, le sue capacità – come per gli altri organi – scaturiscono dalle sue proprietà fisiche. Oggi sappiamo che un infarto o una ferita da arma da fuoco possono interferire con il linguaggio distruggendo parti del cervello, e che il Prozac o il Ritalin possono influenzare l’umore alterando il flusso dei neurotrasmettitori. Gli elementi fondamentali del cervello – i neuroni e le sinapsi che li connettono – possono essere intesi come sistemi fisici, con proprietà chimiche ed elettriche che derivano dalla loro composizione.

Eppure, fino agli anni Novanta, i dualisti dell’ultima ora hanno potuto pensare che lo sviluppo del cervello seguisse principi diversi. Naturalmente, molti indizi facevano ritenere che i geni dovessero essere importanti per il cervello: i gemelli identici si assomigliano nella personalità, oltre che nel fisico, più di quelli non identici; disturbi mentali come la schizofrenia o la depressione compaiono nelle famiglie e accomunano anche gemelli lontani tra loro; e gli allevatori sanno che modellare gli animali nel corpo spesso produce modificazioni correlate nel loro comportamento. Tutti questi indizi facevano supporre effetti genetici sul cervello.

Ma si tratta di indizi estremamente indiretti, ed è stato facile prestare loro scarsa attenzione. Persino a metà degli anni Novanta, nonostante tutte le scoperte fatte nel campo della biologia molecolare, non si sapeva quasi nulla di specifico sui processi di formazione del cervello. Alla fine del decennio comunque, le rivoluzioni metodologiche nella biologia molecolare – le tecniche per studiare e manipolare i geni – sono iniziate a entrare nello studio del cervello. Oggi, a solo pochi anni di distanza, appare chiaro che il cervello è veramente governato in misura enorme dagli stessi processi che governano il resto del corpo, non solo a livello macroscopico (ossia come prodotto di approssimazioni successive) rna anche a livello microscopico, per quanto riguarda i meccanismi con cui i geni vengono attivati e disattivati, ed anche in relazione a quali geni verranno utilizzati. Moltissimi dei geni che concorrono allo sviluppo del cervello svolgono un ruolo importante (e spesso strettamente correlato) anche nel resto del corpo.

Retrospettivamente, questo dovrebbe destare poca sorpresa. Pur avendo un aspetto molto diverso da quello delle altre cellule, con gli assoni lunghi e sottili che possono estendersi per la lunghezza del corpo e i dendriti con le loro arborizzazioni che raccolgono i messaggi provenienti dagli altri neuroni, fondamentalmente i neuroni – le principali cellule cerebrali – sono semplicemente delle specializzazioni di un tema cellulare universale. Come quasi tutte le altre cellule, il neurone contiene il nucleo con il dna, le riserve energetiche mitocondriali, le membrane per tenere fuori eventuali invasori e così via. Anche le specializzazioni distintive del neurone sono in realtà soltanto delle variazioni di comuni temi biologici; gli assoni, ad esempio, dipendono essenzialmente dalle stesse proteine citoscheletriche di molte altre cellule.

Tutto questo significa che il ciclo vitale del neurone è molto simile a quello di una qualsiasi altra cellula. Che non è poi così terribilmente diverso dal ciclo vitale di un essere umano. Il neurone nasce, ha una carriera (diciamo come neurone motorio o neurone sensoriale), eventualmente si trasferisce in una nuova casa, e alla fine muore. Sono le scelte di vita delle cellule – siano esse neuroni o cellule del fegato – a dare al cervello e al corpo il loro tessuto. Tutte le approssimazioni successive che danno vita a un cervello o a un cuore sono determinate dalle azioni delle singole cellule, che a loro volta sono determinate in misura non piccola dai geni contenuti all’interno dei loro nuclei.

Negli ultimi due anni i neuroscienziati dello sviluppo hanno cominciato a capire questo processo nel dettaglio, tanto da poterlo direttamente alterare attivando i giusti interruttori genetici. I ricercatori sono riusciti ad allevare dei topi con cervello di dimensioni abnormi introducendo una divisione cellulare straordinaria, a differenziare con stratagemmi i neuroni che normalmente producono neurotrasmettitori eccitatori facendogliene produrre di inibitori, e ad indurre dei neuroni che altrimenti sarebbero stati diretti verso la corteccia a dirigersi invece in un’area subcorticale chiamata corpo striato.

I geni guidano questo processo per intero, con tanta precisione nel cervello quanto in altre parti del corpo. La capacità di supervisione dei geni vale anche per le parti più insolite, eppure più caratteristiche, dei neuroni: i lunghi assoni che trasportano i segnali lontano dalla cellula, le arborizzazioni dendritiche che consentono ai neuroni di ricevere i segnali da altre cellule nervose, e i miliardi e miliardi di sinapsi che fungono da connessione tra loro. Il comportamento del nostro cervello dipende in larga misura da come sono costituite queste connessioni sinaptiche – alteriamole, e altereremo la mente – e il modo in cui queste sono costituite dipende in misura non piccola dal genoma. In laboratorio, mosche e topi mutanti con un circuito cerebrale abnorme hanno problemi di ogni tipo, dal controllo motorio (un topo mutante è chiamato «barcollante» per il suo passo quasi da ubriaco) alla vista. E negli esseri umani, un circuito cerebrale difettoso contribuisce a patologie come la schizofrenia o l’autismo.

Un appropriato circuito neurale dipende dal comportamento dei singoli assoni e dendriti. E questo comportamento, a sua volta, dipende dal contenuto del genoma. Ad esempio, l’attività degli assoni è governata in gran parte da speciali protuberanze ondulate vagamente simili a una mano che si trovano alla fine di ogni assone, chiamate coni di crescita. Questi ultimi (e l’innervazione assonale che si trascinano dietro) sono come piccoli animali che vanno avanti e indietro, girando intorno agli ostacoli, estendendo e rìtraendo dei sensori chiamati filopodi (le «dita» del cono di crescita) mentre il cono va in cerca della sua destinazione – ad esempio, nella corteccia uditiva. I coni di crescita non sono semplicemente lanciati come proiettili che seguono ciecamente e inutilmente qualsiasi percorso su cui siano stati inizialmente posti, ma svolgono una costante attività di compensazione e aggiustamento, assumendo nuove informazioni man mano che cercano la strada per raggiungere il bersaglio.
I coni di crescita non si limitano ad andare in una direzione sperando per il meglio.

Essi «sanno» cosa stanno cercando e sono in grado di cambiare i loro piani anche se ostacoli indotti sperimentalmente si frappongono sul loro cammino. Per raggiungere la loro destinazione usano ogni trucco possibile, dai segnali «a breve gittata» provenienti dalla superficie delle cellule vicine, fino ai segnali a lunga gittata trasmessi da millimetri di distanza: miglia e miglia per la geografia di un assone. Ad esempio, alcune proteine sembrano fungere da «radiofaro» in grado di viaggiare per grandi distanze e fare da guida ai coni di crescita lontani – purché siano sintonizzati sulla stazione giusta. Quali stazioni il cono di crescita sceglierà – e se troverà un particolare segnale attraente o respingente – dipende dai recettori proteici che ha sulla superficie, che a loro volta dipendono dai geni espressi internamente.

Oggi i ricercatori sono in condizione di poter iniziare a capire, ed anche a manipolare, questi geni. Nel 2000, un’equipe di ricercatori del Salk Institute di San Diego ha preso un gruppo di neuroni motori toracici, che normalmente estendono i loro assoni in molti posti diversi, come i muscoli assiali (i muscoli del busto che sovrintendono alla postura), i muscoli intercostali (i muscoli tra le costole), e i neuroni simpatici (che, tra le altre cose, partecipano alla mobilitazione di energia veloce per le risposte in condizione di stress), e cambiandogli le etichette genetiche ha persuaso praticamente l’intero gruppo di neuroni toracici ad abbandonare i propri bersagli abituali in favore dei muscoli assiali. (Le poche eccezioni sono state alcuni neuroni che, a quanto pare, non riuscivano ad adattarsi alle destinazioni assiali affollate e hanno dovuto volgersi verso altri bersagli).
In una prospettiva psicologica, tutto questo ci porta a un sistema incredibilmente potente per dotare di circuiti la mente. La natura non si limita a dire vagamente agli assoni e ai dendriti di inviare e accettare segnali dai vicini, lasciando così tutto il peso dello sviluppo mentale all’esperienza, ma depone essa stessa i «cavi»: fornisce le innervazioni cerebrali – assoni e dendriti – che a loro volta elaborano strumenti per trovare da sole la loro strada. Invece di aspettare l’esperienza, i cervelli sono in grado di sfruttare il ventaglio offerto da geni e proteine per creare un ricco e intricato punto di partenza per il cervello e la mente.

L’assoluta coincidenza tra i processi cellulari e molecolari attraverso cui si costruisce il cervello, e i processi attraverso cui si costruisce il resto del corpo, ha significato che le nuove tecniche approntate per lo studio dell’uno possono spesso essere facilmente importate nello studio dell’altro. Ad esempio, le nuove tecniche di colorazione con cui i biologi tracciano i movimenti e i destini di singole cellule, non appena messe a punto, possono spesso essere utilizzate nello studio del cervello; cosa ancor più importante, spesso le nuove tecniche create per modificare il genoma di animali da esperimento possono essere applicate quasi immediatamente agli studi sullo sviluppo del cervello. La nostra comprensione collettiva della biologia sta crescendo a grandi passi perché molto spesso quel che vale in un caso vale anche nell’altro.

Innato e acquisito ‘redux’

Quest’idea apparentemente semplice – ciò che va bene per il corpo, va bene per il cervello – ha conseguenze importanti per il modo in cui intendiamo il ruolo della natura e quello dell’educazione nello sviluppo della mente e del cervello.

Oltre il disegno.

Sin dai primi anni Sessanta del Novecento i biologi si sono resi conto che i geni non sono né disegni né dittatori; come spiegherò tra un momento, essi vanno piuttosto visti come fonti di opportunità. Eppure, poiché il cervello è stato trattato così a lungo come qualcosa di separato dal corpo, l’idea del gene come fonte di opzioni – e non latore di ordini – deve ancora trovare veramente spazio nella nostra comprensione delle origini della psicologia umana. I biologi hanno capito da tempo che tutti i geni hanno due funzioni. In primo luogo, fungono da stampo per costruire particolari proteine. Il gene dell’insulina fornisce lo stampo per l’insulina, i geni dell’emoglobina offrono lo stampo per costruire l’emoglobina e così via.

In secondo luogo, ciascun gene contiene quella che viene chiamata la sequenza di regolazione, un insieme di condizioni che stabiliscono se lo stampo di quel gene sarà convertito in proteina oppure no. Sebbene ogni cellula contenga una copia completa del genoma, la maggior parte dei geni presenti in una data cellula è inattiva. Le nostre cellule polmonari, ad esempio, contengono la ricetta per l’insulina ma non la producono perché in quelle cellule il gene dell’insulina è disattivato (o «represso»); ciascuna proteina è prodotta solo nelle cellule in cui è attivato un determinato gene. I geni sono come le righe di un programma per computer.

Ogni gene ha un se e un allora una precondizione (se) e un’azione (allora). E questo è uno dei punti più importanti in cui può entrare l’ambiente: i se dei geni rispondono all’ambiente delle cellule in cui sono contenuti. I geni non sono entità statiche che decidono in anticipo il destino di ciascuna cellula; grazie alla sequenza di regolazione, essi sono invece dinamici e possono guidare una cellula in modi diversi in momenti diversi, a seconda dell’equilibrio delle molecole nel loro ambiente.

Questo meccanismo fondamentale – scoperto all’inizio degli anni Sessanta da due biologi francesi, Francois Jacob e Jacques Monod, grazie a una serie di studi approfonditi sulla dieta di un semplice batterio – vale tanto per gli esseri umani quanto per i batteri, e tanto per il cervello quanto per qualsiasi altra parte del corpo. Monod e Jacob intendevano capire come il batterio E. coli riuscisse a passare quasi istantaneamente da una dieta a base di glucosio (la sua preferita) a una dieta a base di lattosio (una riserva di emergenza). Essi scoprirono che questo brusco cambiamento di dieta si compiva mediante un processo che attivava e disattivava i geni.

Per metabolizzare il lattosio, il batterio aveva bisogno di costruire un certo insieme di enzimi proteici che per semplicità chiamerò collettivamente lattasi, il prodotto di un cluster di geni della lattasi. Ciascun E. coli aveva quei geni della lattasi in posizione di attesa, ma essi furono espressi – attivati – solo quando un po’ di lattosio potè legarsi (attaccarsi a) un certo pezzetto di dna che si trovava vicino ad essi, e questo a sua volta poteva accadere solo se non c’era glucosio disponibile nei paraggi. In sostanza, il semplice batterio aveva un se-allora – se lattosio e non glucosio, allora costruisci lattasi – che è del tutto analogo ai miliardi di se-allora che fanno funzionare i software dei computer di tutto il mondo.

II punto essenziale è che i geni sono se piuttosto che devi. Perciò, anche un singolo suggerimento ambientale può ridisegnare radicalmente il corso dello sviluppo. Nella farfalla africana Bicyclus anynana ad esempio, un’alta temperatura durante lo sviluppo (associata alla stagione delle piogge nel clima tropicale in cui vive) porta la farfalla ad acquistare una colorazione vivace; una bassa temperatura (associata a un autunno secco) fa diventare la farfalla di un colore marrone spento. Durante la crescita, la farfalla non apprende (nel corso del suo sviluppo) come mimetizzarsi meglio – farà lo stesso in un laboratorio dove la temperatura varia e il fogliame è costante; è invece geneticamente programmata per svilupparsi in due modi diversi, in due ambienti diversi.

La lezione degli ultimi cinque anni di ricerche nelle neuroscienze dello sviluppo è che i se-allora sono cruciali e onnipresenti, nello sviluppo cerebrale non meno che altrove. Prendiamo un esempio scoperto di recente: ratti, topi e altri roditori dedicano una particolare regione della corteccia cerebrale nota come aree dei «barili» al problema di analizzare la stimolazione delle loro vibrisse [i «barili» sono gruppi di neuroni; il loro numero e la loro disposizione corrispondono alle vibrisse presenti sul muso dell’animale]. L’esatto posizionamento di questi «barili» sembra essere determinato da un gene o da un insieme di geni la cui regione se risponde alla quantità di una particolare molecola, il fattore 8 di crescita del fibroblasto (FGF8). Alterando la distribuzione di questa molecola, i ricercatori sono riusciti ad alterare lo sviluppo dei barili: accrescendo la concentrazione di FGF8 si ottenevano topi con aree dei barili insolitamente avanzate, mentre diminuendo la concentrazione si ottenevano topi con aree dei barili insolitamente arretrate. In sostanza, la quantità di FGF8 funge da segnalatore e guida le cellule che stanno crescendo verso il loro destino pilotando i se di regolazione dei molti geni che presumibilmente concorrono alla formazione delle aree dei barili.

Altri se-allora contribuiscono alla funzione del cervello nel corso dell’intera vita, cioè sovrintendono al controllo dei neurotrasmettitori e partecipano (come spiegherò sotto) al processo di deposito delle tracce mnemoniche. Poiché ogni gene ha un se, ogni aspetto dello sviluppo cerebrale è legato in linea di principio a qualche aspetto ambientale. Sostanze chimiche come l’alcol, se ingerite durante la gravidanza, hanno effetti così pesanti perché ingannano i se che regolano i geni che, a loro volta, guidano le cellule facendole dividere troppo o troppo poco, facendole spostare troppo lontano o non abbastanza lontano e così via. Il cervello è il prodotto delle azioni delle cellule che lo compongono, e queste azioni sono il prodotto dei geni che esse contengono al loro interno. Ciascuna cellula è guidata da 30 mila se accoppiati a 30 mila allora: tante possibilità quanti sono i geni. (In realtà di più, perché molti genihanno svariati se, e i geni possono funzionare, e spesso funzionano, in combinazione con altri.)

Dai geni ai comportamento.

Sia che parliamo del cervello, sia che parliamo di altre parti del corpo, anche la modificazione di un solo gene – determinando un nuovo se o un nuovo allora – può avere conseguenze importanti. Proprio come una singola alterazione del gene dell’emoglobina può comportare una predisposizione all’anemia falciforme, così una singola modificazione dei geni del cervello può portare a un deficit del linguaggio o a un ritardo mentale.

E, almeno negli animali, piccole differenze nel genoma possono portare a differenze significative nel comportamento. Ad esempio, un’equipe di Toronto ha usato recentemente le tecniche della genetica per studiare – e poi modificare – le abitudini alimentari dei vermi C. elegans. Alcuni elegans preferiscono nutrirsi in gruppo, altri sono solitari, e il gruppo di Toronto è riuscito a ricondurre queste differenze di comportamento alle differenze in un singolo amminoacido nella regione dello stampo proteico (allora) di un particolare gene chiamato npr-1; i vermi che presentano l’animinoacido valina nel punto critico sono «socievoli» mentre i vermi con la fenilalanina sono solitari. Armata di questa conoscenza e grazie alle moderne tecniche di ingegneria genetica, l’equipe è riuscita a far diventare un gruppo di vermi C. elegans solitari vermi socievoli, alterando quel particolare gene.

Un’altra équipe di ricercatori, presso la Emory University, ha dimostrato che cambiare la regione se di regolazione di un singolo gene può avere un effetto significativo anche sul comportamento sociale. Prendendo le mosse dall’osservazione che i diversi atteggiamenti sociali di diverse specie di arvicole [roditori] erano correlati alla quantità di recettori di vasopressina che queste possedevano, i ricercatori hanno trasferito la regione del se di regolazione dei geni dei recettori della vasopressina presente nelle arvicole della prateria, nel genoma di una specie meno socievole, il topo. Così facendo hanno creato dei topi mutanti, più socievoli del normale, con più recettori di vasopressina. Con altre piccole modificazioni genetiche, i ricercatori hanno creato topi ansiosi e spaventati, topi che progressivamente aumentano il consumo di alcol in condizioni di stress, topi privi dell’istinto di accudire la prole, e persino topi che si puliscono continuamente tirandosi e strappandosi i peli fino alla calvizie. Ciascuno di questi studi dimostra come il comportamento possa essere modificato in modo significativo se si altera anche un solo gene.

Tuttavia, che parliamo di cuore, reni o cervello, le strutture biologiche complesse sono il prodotto delle azioni e interazioni congiunte di molti geni, non di uno solo. Una mutazione di un singolo gene conosciuto come FOXP2 può interferire con la capacità di apprendimento linguistico in un bambino; un’alterazione nel gene della vasopressina può alterare la socievolezza di un roditore. Questo però non significa che FOXP2 sia l’unico responsabile del linguaggio, o che la vasopressina sia l’unico gene di cui un ratto ha bisogno per essere socievole. Anche se i singoli geni possono avere effetti potenti, nessuna caratteristica è la conseguenza di un singolo gene. Non vi può essere un solo gene responsabile del linguaggio, o della propensione a parlare del tempo, più di quanto non vi possa essere per il ventricolo sinistro di un cuore umano. Anche una singola cellula cerebrale – o una singola cellula cardiaca – è il prodotto del funzionamento congiunto di molti geni.

La corrispondenza tra geni e comportamento è resa ancora più complessa dal fatto che pochi circuiti neuronali, se non nessuno, operano in modo interamente autonomo. Tranne forse nel caso dei riflessi, quasi tutti i comportamenti sono il prodotto dell’interazione di sistemi molteplici. In animali complessi come i mammiferi o gli uccelli, praticamente ogni azione dipende dall’incontro di sistemi che sovriritendono alla percezione, all’attenzione, alla motivazione e così via. Che un piccione becchi o no una leva per ottenere del mangime dipende da quanta farne ha, se è stanco, se intorno c’è qualcosa di più interessante e così via. Inoltre, anche con un solo sistema, i geni raramente partecipano direttamente «on-line», anche perché sono – semplicemente – troppo lenti. I geni sembrano svolgere un ruolo attivo, importante in processi «off-line», come il consolidamento della memoria a lungo termine, che può avvenire anche durante il sonno. Ma quando si tratta di prendere decisioni rapidamente, on-line, i geni, che lavorano su una scala temporale di secondi o minuti, cedono le redini ai neuroni, che agiscono su una scala di centesimi di secondo. Il principale contributo dei geni viene prima, nel collocare e adattare i circuiti neurali, non nel funzionamento del sistema nervoso momento per momento. I geni costruiscono le strutture neurali, non il comportamento.

Nell’assemblaggio del cervello, come nell’assemblaggio degli altri organi, una delle nozioni più importanti è quella di effetto a catena: un gene che ne influenza un altro, che ne influenza un altro, che ne influenza un altro e così via. Piuttosto che agire in assoluto isolamento, quasi tutti i geni agiscono come elementi di reti complesse in cui l’espressione di un gene è una precondizione per 1’espressione del gene successivo. L’allora di un gene può soddisfare il se di un altro gene, e indurlo così ad attivarsi. Le proteine di regolazione sono proteine (esse stesse prodotte dai geni) che controllano l’espressione di altri geni e così legano insieme l’intero sistema genetico. Un singolo gene di regolazione in cima ad una rete complessa può indirettamente lanciare un effetto a catena di centinaia di migliaia di altri geni che porterà, ad esempio, allo sviluppo di un occhio o di un arto.

Come ha detto il biologo svizzero Walter Gehring, tali geni possono fungere da «geni del controllo master» ed esercitare un potere enorme su un sistema in fase di crescita. PAX6, ad esempio, è una proteina di regolazione che svolge un ruolo nello sviluppo dell’occhio, e Gehring ha dimostrato che, attivandola artificialmente nel punto giusto sull’antenna di un moscerino della frutta, si può ottenere un occhio in più, proprio lì sull’antenna. Perciò, un semplice gene di regolazione porta direttamente e indirettamente all’espressione, approssimativamente, di altri 2.500 geni. Ciò che è vero per il moscerino della frutta è vero anche per il suo cervello, ed anche per il cervello umano: mescolando e coordinando i loro effetti, i geni possono esercitare un’influenza enorme sulla struttura biologica.

Da un numero minuscolo di geni ad un cervello complesso.

L’effetto a catena ci aiuta a capire meglio il senso della presunta scarsità dei geni, l’idea che la discrepanza tra il numero dei geni e il numero dei neuroni possa in qualche modo far ridimensionare l’importanza dei geni nella costruzione del cervello o del comportamento. La riflessione sulla relazione tra il cervello e il corpo rivela immediatamente la debolezza dell’argomentazione basata sulla scarsità dei geni: se 30 mila geni sono insufficienti per influire significativamente sui venti miliardi di cellule presenti nel cervello, sicuramente essi non avranno molto effetto sui miliardi e miliardi di cellule presenti nel corpo nel suo complesso. La confusione, ancora una volta, può essere attribuita all’idea sbagliata che vede il genoma come disegno, all’aspettativa malriposta di una corrispondenza uno ad uno tra singoli geni e singoli neuroni. In realtà, il genoma descrive i processi necessari a costruire le cose, ma non contiene le immagini dei prodotti finiti: meglio pensare il genoma come uno schema di compressione, che come un disegno.

Gli esperti informatici usano gli schemi di compressione quando vogliono immagazzinare e trasmettere informazioni in modo efficiente. Tutti gli schemi di compressione, in un modo o nell’altro, si basano sull’eliminazione della ridondanza. Ad esempio, i programmi che usano il formato gif cercano i modelli di pixel (i punti colorati di cui sono composte le immagini digitali) che si ripetono. Se vi è un’intera serie di pixel tutti esattamente dello stesso colore, il software che crea il file gif assegnerà un codice che rappresenta il colore di quei pixel, seguito da un numero per indicare quanti pixel in una fila sono dello stesso colore. Invece di dover elencare ogni pixel azzurro individualmente, il formato gif salva spazio immagazzinando solo due numeri: il codice del colore azzurro e il numero dei pixel azzurri che si ripetono.

Quando «apriamo» un file gif, il computer riconverte quei codici nelle appropriate stringhe di punti identici: nel frattempo, esso ha risparmiato una quantità considerevole di memoria. Gli esperti informatici hanno escogitato dozzine di diversi scherni di compressione, dal jpeg per le fotografie all’mp3 per la musica, ciascuno studiato per lavorare su un diverso tipo di ridondanza. 11 procedimento generale è sempre lo stesso: un prodotto finale è convertito in una descrizione compatta che spiega come ricostruire quel prodotto finale; un «decompressore» ricostruisce il prodotto finale desiderato da quella descrizione compatta.

La biologia non sa in anticipo quale sarà il prodotto finale; non c’è uno Stuffit compressor per convertire un essere umano in genoma. Ma il genoma è molto simile a uno schema di compressione, una descrizione incredibilmente efficiente di come costruire qualcosa di grande complessità, forse più efficiente di qualsiasi cosa mai sviluppata nei laboratori informatici (lasciamo stare le complessità del cervello: ci sono miliardi di miliardi di cellule nel resto del corpo, e a tutte sovrintende lo stesso genoma con i suoi 30 mila geni). E pur non avendo l’equivalente di un programma capace di immagazzinare un’immagine in una codificazione compressa, la natura offre tuttavia l’equivalente di un programma capace di eseguire la decompressione: la cellula. Dentro il genoma, fuori l’organismo. Attraverso il meccanismo dell’espressione del gene, le cellule sono fabbriche che si autoregolano traducendo il genoma in struttura biologica.

Gli effetti a catena sono il cuore di questo processo di decompressione, perché le proteine di regolazione che sono a monte della catena funzionano come una formula sintetica che può essere utilizzata più e più volte, come la sub-routine di un ingegnere informatico. Ad esempio, il genoma di un centopiedi probabilmente non specifica insiemi separati di centinaia o migliaia di geni per ciascuna zampa; sembra invece che la sub-routine di costruire le zampe – l’effetto concatenato di forse centinaia o migliaia di geni – entri in funzione molte volte, una volta per ogni nuovo paio di zampe. Qualcosa di simile sta dietro la costruzione delle costole di un vertebrato. E negli ultimi anni è diventato chiaro che il cervello dell’embrione può contare sullo stesso tipo di riciclaggio genetico, utilizzando gli stessi motivi – come insiemi di connessioni parallele conosciute come mappe topografiche – più e più volte, per sovrintendere allo sviluppo di migliaia o anche milioni di neuroni con ciascun utilizzo di una data sub-routine genetica. Non e è scarsità di geni, perche ogni effetto a catena rappresenta la formula abbreviata di una diversa sub-routine riutilizzabile, un modo diverso di creare i più dal meno.

Dalla predeterminazione alla rideterminazione dei circuiti cerebrali.

In ultima analisi, penso che la domanda più importante sulle radici biologiche della mente non possa essere la domanda che ha preoccupato me e i miei colleghi per tanti anni – in quale misura i geni predeterminino i circuiti cerebrali – ma una domanda diversa che fino a poco tempo fa non era mai stata formulata seriamente: in che misura (e in quali modi) i geni fanno sì che l’esperienza possa rideterminare i circuiti cerebrali? Generalmente, i tentativi di affrontare la questione natura-educazione vacillano per il falso presupposto che le due idee – predeterminare e rideterininare – siano in contraddizione. Gli «anti-innatisti» – quanti criticano l’idea che nasciamo con una struttura mentale significativa precedente all’esperienza – spesso tentano di ridimensionare il significato dei geni ricorrendo a quella che prima ho chiamato «l’argomentazione basata sulla plasticità»; sottolineano l’elasticità del cervello in presenza di un danno e la sua capacità di modificarsi in risposta all’esperienza. Gli innatisti a volte sembrano pensare che la loro posizione richieda di ridimensionare la plasticità (o di dimostrarne i limiti).

In realtà, la plasticità e l’inneità sono quasi logicamente separate. L’inneità riguarda la misura in cui i circuiti cerebrali sono predeterminati, la plasticità riguarda la misura in cui essi possono essere rideterminati. Alcuni organismi possono essere dotati in una cosa ma non nell’altra: gli scimpanzè, ad esempio, possono avere un circuito innato complesso ma, in confronto agli esseri umani, hanno relativamente pochi meccanismi di rideterminazione dei circuiti cerebrali. Altri organismi possono essere poco dotati sotto entrambi gli aspetti: i vermi C. elegans hanno una struttura iniziale limitata, ma sono limitate anche le loro tecniche per rimodellare il loro sistema nervoso sulla base dell’esperienza. E alcuni organismi, come gli esseri umani, sono ben dotati sotto entrambi gli aspetti, con un’architettura iniziale enormemente complessa e mezzi fantasticamente potenti e flessibili per rimodellarla sulla base dell’esperienza.

Il punto essenziale è che ogni tecnica per rimodellare i circuiti del cervello ha le sue origini, in un modo o nell’altro, nel genoma. La memoria, ad esempio, è un modo di rimodellare le connessioni tra i neuroni (o di modificare qualcosa dentro i singoli neuroni) che dipende chiaramente dal funzionamento dei geni: interferite con la capacità di sintetizzare le proteine dai geni, e interferirete con la memoria. Organismi strettamente correlati tra loro (come Aplysia, la lumaca di mare che è stata il principale animale sperimentale del premio Nobel Eric Kandel, e una sua cugina piuttosto ottusa, la Dolabrifera dolabrifera) possono differire in modo significativo nella loro capacità di apprendimento. A quanto pare, ciò dipende da una piccola differenza tra il genoma dell’uno e dell’altro. In organismi semplici, trattabili scientificamente, gli scienziati hanno cominciato a mettere in relazione una gamma di diverse abilità di apprendimento e i corrispondenti insiemi di geni. I vermi C. elegans, ad esempio, hanno almeno una dozzina e mezzo di geni connessi all’apprendimento, ciascuno con un particolare ruolo in un particolare tipo di apprendimento. Ciò che apprenderà un organismo dipende in misura non piccola da quali sono i geni per l’apprendimento con cui è cresciuto.

Supereremo la controversia natura-educazione non sfumando (o negando) la distinzione tra i geni e l’ambiente, ma comprendendola meglio, e questo significa, tra le altre cose, approfondire la funzione precisa dei nostri geni e come essi rendono possibile la rideterminazione dei circuiti cerebrali e l’apprendimento. Matt Ridley recentemente ha scritto un libro dal titolo Nature via Nurture [La natura attraverso l’educazione], esatto perché i se che regolano l’espressione dei geni rispondono all’ambiente, ma si potrebbe con altrettanta facilità concludere che in realtà è l’educazione a passare attraverso la natura, perché sono i nostri geni a permetterci di imparare qualcosa dall’ambiente.

Una delle possibilità più intriganti è che alla fine potremmo riuscire a migliorare i nostri interventi sociali – istruzione, programmi di assistenza e simili – mediante una migliore comprensione delle specifiche interazioni tra natura ed educazione. Ad esempio, secondo uno studio recente, i bambini con una certa versione di un gene che «produce un enzima chiamato MAO-A (enzima che metabolizza dei neurotrasmettitori come la serotonina e la dopamina), hanno probabilità significativamente maggiori di diventare violenti: ma solo se sono stati maltrattati da piccoli. In questo modo, un aspetto del comportamento umano potrebbe essere un po’ come il corpo della farfalla Bicyclus, che assume una forma piuttosto che un’altra grazie ai geni che si attivano in risposta a stimoli ambientali: in due ambienti diversi, un genotipo produce due diversi fenotipi. Anche se questi risultati sono solo un primo studio e stabiliscono solo una correlazione con l’ambiente, e non ancora una relazione causale, ci sono buone ragioni biologiche per trovarli plausibili. Molti organismi (compresi gli esseri umani) dispongono di un vasto assortimento di geni per fronteggiare lo stress, e i se regolatori che controllano la produzione di enzimi come il MAO-A potrebbero certo essere direttamente o indirettamente sensibili a questo stress.

Ulteriori studi sulle interazioni tra i geni e l’ambiente potrebbero portare infine a un nuovo modo di identificare i bambini maggiormente a rischio, e fornire così un nuovo modo di identificare i bambini che potrebbero avvalersi al meglio di speciali programmi di assistenza diurna, o di visite a domicilio degli assistenti sociali. Proprio mentre il nuovo campo della farmacogenetica mira ad abbinare i farmaci a una fisiologia genetica unica, un nuovo campo, la genetica terapeutica, potrebbe usare la genetica individuale per prescrivere interventi sociali personalizzati. Vedendo i geni non come rigidi dittatori del destino, ma come ricchi latori di opportunità, potremmo riuscire a usare le nostre conoscenze sempre maggiori della natura come mezzo per sfruttare al meglio l’educazione.

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