Il destino dell’universo

universeLa vita eterna è una delle credenze basilari di molte religioni: di solito viene immaginata come un aldilà paradisiaco, un’esistenza priva di dolore, morte, preoccupazioni o male in un mondo ben lontano dalla nostra realtà fisica. Ma vi è un altro genere di vita eterna in cui si può sperare, di tipo più temporale. Nella sua conclusione all’Origine della specie, Charles Darwin scrisse:

Dato che tutte le forme di vita esistenti sono discendenti dirette di quelle che vissero prima dell’ era cambriana , possiamo confidare che la normale successione di generazioni non sia mai stata interrotta… Perciò possiamo guardare con una certa fiducia a un futuro assicurato di notevole durata.

Il Sole finirà per esaurire il suo combustibile di idrogeno, e la vita come la conosciamo sul nostro pianeta di origine dovrà estinguersi, ma non è detto che questo significhi la fine della specie umana. Si può immaginare che i nostri futuri discendenti possano cercare nuove dimore e colonizzare l’universo allo stesso modo in cui gli esseri viventi hanno colonizzato ogni possibile nicchia ecologica sulla Terra, e che, sia pur tra mille difficoltà, la nostra specie continui a esistere. O forse no.

È notevole che la scienza, benché non comprenda fino in fondo né le basi fisiche della vita né lo sviluppo dell’universo, sia in grado di fare previsioni ragionevoli sulla loro sorte ultima. Le osservazioni cosmologiche oggi portano a pensare che l’universo continuerà a espandersi per sempre anziché, come si riteneva un tempo, raggiungere una dimensione massima e poi cominciare a contrarsi. Pertanto esso non è destinato a perire in un catastrofico «big crunch» in cui ogni cosa verrà totalmente distrutta.

A prima vista, un’espansione perpetua potrebbe apparire una prospettiva ottimistica: che cosa può impedire a una civiltà sufficientemente avanzata di sfruttare le infinite risorse dell’universo per sopravvivere a tempo indeterminato? Tuttavia la vita, per esistere, ha bisogno di energia e di informazione, e considerazioni scientifiche molto generali portano a concludere che solo una quantità finita di queste risorse può essere accumulata in un tempo anche infinito. Per potersi conservare, la vita dovrebbe accontentarsi di risorse sempre decrescenti e di una conoscenza limitata; se ne conclude che nessuna forma significativa di coscienza può esistere per sempre in queste condizioni.

La timeline dell'universo

Fig-01 – La scala temporale dell’universo: dal Big Bang all’evaporazione dei buchi neri.

 

I deserti dell’eternità

Nello scorso secolo l’escatologia scientifica ha oscillato fra ottimismo e pessimismo. Poco tempo dopo la fiduciosa previsione di Darwin, gli scienziati dell’epoca vittoriana cominciarono a evocare la «morte termica», uno stato in cui l’intero cosmo avrebbe raggiunto una temperatura uniforme e sarebbe divenuto incapace di cambiamento. La scoperta dell’espansione dell’universo negli anni venti parve risolvere questi dubbi, perché l’espansione impedisce al cosmo di pervenire a un simile equilibrio. Ma pochi cosmologi pensarono alle altre implicazioni di un universo in espansione fino al 1979, quando apparve un articolo, divenuto ormai classico, del fisico Freeman Dyson dell’Institute for Advanced Study di Princeton, a sua volta ispirato da precedenti lavori di Jamal Islam, oggi all’Università di Chittagong nel Bangladesh.

Da allora questo argomento è sempre stato al centro dell’attenzione e periodicamente rivisitato da fisici e astronomi. Un anno fa, sulla spinta di nuove osservazioni che indicherebbero un futuro a lungo termine drasticamente diverso da quanto si sia pensato fino a ora, abbiamo deciso di riconsiderare la questione. Negli ultimi 12 miliardi di anni circa, l’universo è passato attraverso una successione di fasi. Nei primi momenti riguardo ai quali si possiedono informazioni empiriche esso era incredibilmente caldo e denso; poi, espandendosi gradualmente, si raffreddò. Per centinaia di migliaia di anni la radiazione ebbe il predominio; si ritiene che la famosa radiazione cosmica di fondo a microonde sia un residuo di quest’epoca. Poi la materia prese il sopravvento e iniziarono a condensare strutture astronomiche progressivamente più grandi.

Ora, se le osservazioni cosmologiche più recenti sono esatte, l’espansione dell’universo sta cominciando ad accelerare: segno che un nuovo e bizzarro tipo di energia, forse derivante dallo spazio stesso, sta salendo alla ribalta. La vita come la conosciamo dipende dall’esistenza delle stelle. Ma queste, inevitabilmente, muoiono, e la loro «natalità» si è ridotta enormemente in confronto alla fase esplosiva iniziale, avvenuta all’incirca 10 miliardi di anni fa.

Fra 100 000 miliardi di anni l’ultima stella formatasi nel modo convenzionale si estinguerà, e avrà inizio una nuova era. Processi attualmente troppo lenti per essere percepibili assumeranno importanza: la dispersione dei sistemi planetari a causa di incontri stellari ravvicinati, il possibile decadimento della materia, ordinaria ed esotica, la lenta evaporazione dei buchi neri. Presumendo che la vita intelligente sia in grado di adattarsi al mutare delle circostanze, quali limiti fondamentali si troverà di fronte?

In un universo eterno, di volume potenzialmente infinito, una civiltà sufficientemente avanzata potrebbe sperare di raccogliere una quantità infinita di materia, energia e informazione. Sorprendentemente, questo non è vero. Anche dopo un’eternità di lavoro assiduo e ben organizzato, gli esseri viventi possono accumulare solo un numero finito di particelle, una quantità finita di energia e un numero finito di bit di informazione.

A rendere la situazione ancora più frustrante vi è il fatto che il numero di particelle, erg e bit disponibili può crescere senza limiti. Il problema non è necessariamente la carenza di risorse, ma piuttosto la difficoltà di raccoglierle.

Il colpevole è proprio ciò che ci permette di aspirare all’eternità: l’espansione dell’universo. Via via che il cosmo cresce di dimensioni, la densità media delle fonti di energia ordinarie diminuisce. Se si raddoppia il raggio dell’universo, la densità degli atomi si riduce di otto volte. Nel caso delle onde luminose, il declino è ancora più precipitoso: la loro energia crolla di un fattore 16 perché l’espansione le «stira» e così facendo sottrae loro energia (si veda la fig-02).

La diluizione cosmica

Fig-02 – La diluizione cosmica conseguente all’espansione dello spazio influenza in modi diversi differenti forme di energia. La materia ordinaria (in arancione) si rarefà in proporzione diretta con il volume, mentre la radiazione cosmica di fondo (in viola) si indebolisce ancora più rapidamente quando viene stirata dalla regione del visibile a quella delle microonde e oltre. La densità di energia rappresentata da una costante cosmologica (in blu) non cambia, almeno secondo le attuali teorie.

Come conseguenza di questa diluizione, raccogliere risorse diventa ancora più dispendioso, in termini di tempo. Gli esseri intelligenti potrebbero avere a disposizione due strategie distinte: lasciare che la materia li raggiunga oppure andarla a prendere. Nel primo caso, la migliore strategia a lungo termine è far lavorare la gravità. Di tutte le forze della natura, solo la gravità e l’elettromagnetismo possono attrarre qualcosa da distanze arbitrariamente grandi. Ma il secondo può essere escluso: dato che le cariche opposte si bilanciano, un oggetto è tipicamente neutro e quindi immune alle forze elettriche e magnetiche a lungo raggio. La gravità, d’altra parte, non si annulla, perché le particelle di materia e radiazione si attraggono gravitazionalmente, ma non si respingono mai.

Arrendersi al vuoto

Anche la gravità, tuttavia, deve fare i conti con l’espansione dell’universo, che allontana gli oggetti e ne indebolisce l’attrazione gravitazionale reciproca. In tutti gli scenari possibili, tranne uno, la gravità finisce per diventare incapace di attrarre ulteriormente materia. In effetti, il nostro universo potrebbe aver già raggiunto questo punto; gli ammassi di galassie potrebbero essere i corpi più grandi che la gravità sia in grado di aggregare. L’unica eccezione si ha se l’universo è in bilico fra espansione e contrazione, nel qual caso la gravità continua ad accumulare indefinitamente materia. Ma oggi si ritiene che questo scenario contraddica le osservazioni, e in ogni caso pone a sua volta difficoltà: dopo circa 10 alla 33 anni, la materia accessibile sarà così concentrata che la maggior parte di essa collasserà a formare buchi neri, i quali inghiottiranno qualunque forma di vita esistente. Sulla Terra, può darsi che tutte le strade portino a Roma, ma in un buco nero conducono, in una quantità finita di tempo, al centro del buco stesso, dove la distruzione di ogni cosa è certa.

Purtroppo la strategia del cercare attivamente risorse non dà miglior esito dell’approccio passivo. L’espansione dell’universo sottrae energia cinetica, cosicché i «prospettori cosmici» dovrebbero sperperare il bottino raccolto solo per mantenere costante la propria velocità. Anche nel caso più ottimistico – quello in cui l’energia si muovesse verso il raccoglitore alla velocità della luce e venisse raccolta senza perdite – una civiltà potrebbe ottenere energia illimitata solo in prossimità di un buco nero o nel suo interno. Quest’ultima possibilità è stata analizzata nel 1982 da Steven Frautschi del California Institute of Technology, il quale ha concluso che l’energia ricavabile dai buchi neri non potrebbe tenere il passo con i costi sempre crescenti dell’estrazione. Abbiamo recentemente riesaminato questa possibilità e abbiamo trovato che il guaio è ancora peggiore di quanto ritenesse Frautschi: le dimensioni che un buco nero dovrebbe avere per raccogliere energia a tempo indefinito superano quelle dell’universo visibile.

La diluizione cosmica dell’energia sarebbe un’autentica disdetta se l’espansione dell’universo stesse accelerando. Tutti gli oggetti remoti che sono attualmente visibili finirebbero per allontanarsi a velocità superluminale e, così facendo, sparirebbero alla vista. Le risorse totali disponibili in questo scenario sono quindi, al più, limitate da ciò che è visibile oggi (si veda la finestra in queste due pagine).

Non tutte le forme di energia sono egualmente soggette alla diluizione. L’universo potrebbe, per esempio, essere occupato da una rete di stringhe cosmiche: concentrazioni infinitamente lunghe e sottili di energia che potrebbero essersi sviluppate a causa del raffreddamento non uniforme dell’universo primordiale. L’energia per unità di lunghezza di una stringa cosmica rimane invariata nonostante l’espansione dell’universo. Una civiltà avanzata potrebbe tentare di tagliarne una, occupare la zona circostante le estremità recise e cominciare a consumarle; se la rete di stringhe fosse infinita, potrebbe sperabilmente soddisfare il suo appetito per sempre. Il problema di questa strategia è che tutto ciò che possono fare gli esseri viventi, lo possono fare anche i processi naturali. Se una civiltà può trovare un modo per tagliare le stringhe cosmiche, allora la rete di stringhe può spezzarsi anche spontaneamente: per esempio, è possibile che buchi neri appaiano sulle stringhe e le divorino. Pertanto gli esseri viventi potrebbero consumare solo una quantità finita di una stringa prima di incontrare un altro taglio. L’intera rete di stringhe finirebbe per sparire, lasciando gli sfruttatori a mani vuote.

E che dire della possibilità di «scavare» nel vuoto quantistico? Dopo tutto, l’accelerazione cosmica potrebbe essere determinata dalla cosiddetta costante cosmologica, una forma di energia che non viene diluita dall’espansione dell’universo. Se questo fosse vero, lo spazio vuoto sarebbe riempito da un bizzarro tipo di radiazione, che prende il nome di radiazione di Gibbons-Hawking o di de Sitter. Purtroppo è impossibile estrarne energia utilizzabile: se il vuoto cedesse energia, cadrebbe in uno stato energetico più basso; ma il vuoto è già il minimo stato di energia possibile.

Per quanto si cerchi di essere ingegnosi, e per quanto l’universo possa essere incline alla cooperazione, si arriva quindi inevitabilmente a constatare la finitezza delle risorse disponibiliAnche stando così le cose, non può esservi ugualmente una qualche possibilità di perdurare per sempre?

La strategia ovvia, che Dyson fu il primo ad analizzare quantitativamente, è imparare a risparmiare. Per ridurre il consumo di energia e mantenerlo basso, gli esseri viventi dovranno abbassare la temperatura corporea. Nel caso della specie umana, si potrebbe pensare a modificazioni genetiche che consentano una temperatura un po’ inferiore ai 310 kelvin (circa 37 gradi Celsius) della temperatura fisiologica. Ma la temperatura corporea non può essere ridotta arbitrariamente; il punto di congelamento del sangue è un limite inferiore ineludibile. In ultima analisi, sembra necessario l’abbandono del corpo fisico.

Anche se futuristica, questa idea non presenta difficoltà fondamentali; presuppone solo che la coscienza non sia legata a un particolare insieme di molecole organiche, ma possa invece essere trasposta in una moltitudine di forme differenti, dai cyborg alle nubi interstellari senzienti. Oggi molti filosofi e studiosi dei processi cognitivi considerano il pensiero cosciente come un processo che potrebbe essere effettuato anche da un computer. Non è necessario qui entrare nei dettagli (tanto meglio, dato che non fanno parte delle nostre competenze); devono passare comunque molti miliardi di anni prima che diventi necessario occuparsene. Questi nuovi «corpi» dovranno funzionare a temperature più basse e con un tasso metabolico inferiore per consumare meno energia.

Dyson dimostrò che se gli organismi viventi potessero rallentare il proprio metabolismo via via che l’universo si raffredda, potrebbero fare in modo di consumare una quantità totale finita di energia per tutta l’eternità. Benché la temperatura più bassa rallenti anche l’attività cognitiva – il numero di pensieri per secondo – questa resterebbe abbastanza grande perché il numero totale di pensieri, in linea di principio, fosse illimitato. In poche parole, gli esseri viventi potrebbero sopravvivere per sempre, in termini non solo di tempo assoluto, ma anche di tempo soggettivo. Finché gli organismi avessero con certezza a disposizione un numero infinito di pensieri, potrebbero sopportare facilmente un ritmo vitale anche molto lento. Avendo davanti miliardi di anni, che fretta c’è?

A prima vista, si potrebbe in questo modo pensare di ottenere qualcosa gratuitamente; ma la matematica dell’infinito può sfidare l’intuizione. Perché un organismo mantenga un grado costante di complessità – sostenne Dyson – la sua velocità di elaborazione delle informazioni deve essere direttamente proporzionale alla temperatura corporea, mentre la velocità di consumo di energia è proporzionale al quadrato della temperatura (il fattore di temperatura deriva da considerazioni termodinamiche di base). Pertanto il fabbisogno energetico si riduce prima dell’alacrità cognitiva (si veda la fig.-03). A 310 kelvin il corpo umano consuma circa 100 watt; a 155 kelvin un equivalente organismo complesso potrebbe pensare a velocità dimezzata, ma consumando solo un quarto dell’energia. Il compromesso sarebbe accettabile perché anche i processi fisici rallenterebbero in maniera analoga.

Tasso cognitivo vs. temperatura senza ibernazione

Fig.-03 Vita eterna da una quantità finita di energia? Se una nuova forma di vita potesse abbassare la temperatura corporea al di sotto del valore fisiologico umano di 310 kelvin, consumerebbe meno energia, anche se i suoi processi mentali sarebbero più lenti. Dato che il tasso metabolico decrescerebbe più rapidamente dell’attività cognitiva, questo essere vivente potrebbe riuscire ad avere un numero infinito di pensieri nonostante le risorse limitate. Un problema è che anche la sua capacità di dissipare calore diminuirebbe, impedendogli di raffreddarsi al di sotto di 10 alla -13 kelvin circa.

 Dormire, morire

Purtroppo, c’è un trucco. Gran parte dell’energia viene dissipata sotto forma di calore, che deve sfuggire – di solito per irradiazione – perché l’oggetto non si riscaldi. La pelle umana, per esempio, appare luminosa in luce infrarossa. A temperature molto basse, il radiatore più efficiente sarebbe un gas di elettroni diluito. Ma anche l’efficienza di questo radiatore ottimale diminuisce con il cubo della temperatura, ossia più velocemente del tasso metabolico. A un certo punto, gli organismi non potrebbero ridurre ulteriormente la propria temperatura. Si troverebbero, invece, costretti a ridurre la propria complessità: in altre parole, a diventare più stupidi. Ben presto, non potrebbero più essere considerati intelligenti.

Per chi manca di audacia, questa potrebbe apparire la fine. Ma per compensare l’inefficienza dei radiatori, Dyson concepì arditamente una strategia di ibernazione. Gli organismi trascorrerebbero solo una parte del proprio tempo nello stato di veglia. Durante il sonno, il loro tasso metabolico si ridurrebbe ma – cosa cruciale – essi continuerebbero a dissipare calore. In questo modo, potrebbero raggiungere una temperatura corporea media ancora inferiore (si veda la fig.04).

Velocità cognitiva vs. temperatura con ibernazione

Fig.-04 L’ibernazione potrebbe eliminare il problema della dissipazione del calore. Via via che si raffredda, l’organismo trascorrerebbe una frazione crescente di tempo dormendo, riducendo ulteriormente il tasso metabolico medio e la velocità dei processi cognitivi. In tal modo, il consumo di energia potrebbe sempre restare inferiore alla massima velocità di dissipazione del calore, pur consentendo sempre un numero infinito di pensieri. Ma un simile stratagemma sarebbe vanificato da altri problemi, come i limiti quantistici.

In effetti, trascorrendo una frazione crescente del proprio tempo nel sonno, essi potrebbero consumare una quantità finita di energia e tuttavia esistere per sempre e avere un numero infinito di pensieri. Dyson concluse quindi che la vita eterna sia effettivamente possibile.

Dalla pubblicazione del suo lavoro, sono state messe in evidenza alcune difficoltà legate a un simile piano. Per esempio, Dyson suppose che la temperatura media dello spazio interstellare – attualmente pari a 2,7 kelvin, come indica la radiazione di fondo a microonde – dovesse sempre diminuire con l’espansione cosmica, cosicché gli organismi viventi avrebbero dovuto continuare indefinitamente a ridurre la propria temperatura. Ma se l’universo possiede una costante cosmologica, la temperatura ha un limite assoluto dato dalla radiazione di Gibbons-Hawking. Secondo le stime attuali del valore della costante, questa radiazione ha una temperatura effettiva di circa 10-29 kelvin. Come è stato fatto notare indipendentemente dai cosmologi J. Richard Gott II, John Barrow, Frank Tipler e da noi, una volta che gli organismi viventi si siano raffreddati fino a questo livello, non potrebbero continuare ad abbassare la propria temperatura per conservare energia.

La seconda difficoltà consiste nella necessità di possedere orologi a sveglia  per potersi destare periodicamente. Gli orologi devono poter funzionare affidabilmente per tempi sempre più lunghi e consumando sempre meno energia. Secondo la meccanica quantistica, questo è impossibile. Si consideri per esempio una sveglia consistente in due palline che sono allontanate e poi liberate dopo essere state dirette l’una contro l’altra; quando collidono, fanno suonare un campanello. Per prolungare l’intervallo fra gli squilli, gli organismi viventi dovrebbero liberare le palline a velocità via via inferiore. Ma prima o poi l’orologio si scontrerà con limiti imposti dal principio di indeterminazione di Heisenberg, che impedisce di specificare simultaneamente con precisione arbitraria velocità e posizione delle palline. Se l’una o l’altra fosse sufficientemente imprecisa, la sveglia cesserebbe di funzionare e l’ibernazione si trasformerebbe in un riposo eterno.

Si potrebbero immaginare altri tipi di sveglie capaci di rimanere per sempre al di sopra del limite quantistico e addirittura integrabili nell’organismo stesso. Tuttavia, nessuno è ancora riuscito a escogitare un meccanismo specifico che possa risvegliare in maniera affidabile un organismo pur consumando quantità finite di energia.

Eterna ricorrenza

Il terzo e più generale dubbio sulla possibilità di sopravvivenza a lungo termine della vita intelligente riguarda i limiti fisici del calcolo. Un tempo gli informatici ritenevano che fosse impossibile eseguire un calcolo senza consumare una certa quantità minima di energia per operazione, quantità che è direttamente proporzionale alla temperatura del computer. Poi, all’inizio degli anni ottanta, i ricercatori compresero che certi processi fisici, come gli effetti quantistici o il moto browniano casuale di una particella in un fluido, potrebbero fungere da base per un computer che non comporti sprechi. Simili calcolatori potrebbero funzionare con quantità arbitrariamente piccole di energia. Per consumarne di meno, dovrebbero solo rallentare: un compromesso che organismi eterni potrebbero accettare senza danno. Ci sono solo due condizioni: in primo luogo, dovrebbero rimanere in equilibrio termico con il loro ambiente; in secondo luogo, non dovrebbero mai eliminare informazioni. Se lo facessero, il calcolo diventerebbe irreversibile, e termodinamicamente un processo irreversibile deve dissipare energia.

Purtroppo queste condizioni non sono aggirabili in un universo in espansione. Via via che l’espansione cosmica diluisce e stira le lunghezze d’onda della luce, gli organismi diventano incapaci di emettere o assorbire la radiazione di cui avrebbero bisogno per stabilire l’equilibrio termico con il loro ambiente. E, avendo a disposizione una quantità finita di materia, e quindi una memoria finita, dovrebbero prima o poi dimenticare un pensiero per averne uno nuovo. Che tipo di esistenza perenne potrebbero avere simili organismi? Potrebbero raccogliere solo un numero finito di particelle e una quantità finita di informazioni. Particelle e bit potrebbero essere configurati solo in un numero finito di modi; e poiché pensare è riorganizzare informazioni, una quantità finita di queste ultime implica un numero finito di pensieri. Tutto ciò che gli organismi potrebbero fare sarebbe rivivere il passato, con gli stessi pensieri che ricorrono continuamente e senza più alcuna novità o creatività. Si può definire vita questo stato?

Bisogna riconoscere che Dyson non si è dato per vinto. Nella sua corrispondenza con noi ha proposto che gli esseri viventi potrebbero scavalcare le limitazioni quantistiche sull’energia e l’informazione aumentando le proprie dimensioni, per esempio, o sfruttando tipi differenti di memoria. Per usare la sua terminologia, si tratta di capire se la vita è «analogica» o «digitale», ossia se i suoi limiti sono posti dalla fisica del continuo o da quella dei quanti. Noi riteniamo che nel lungo termine la vita sia digitale.

Vi sono altre speranze per ottenere la vita eterna? La meccanica quantistica, che secondo noi pone limiti così inesorabili, potrebbe per un altro verso offrire salvezza. Per esempio, se la meccanica quantistica della gravità permettesse l’esistenza di «cunicoli» stabili, gli esseri viventi potrebbero aggirare la barriera posta dalla velocità della luce, visitare parti dell’universo che sarebbero altrimenti inaccessibili e raccogliere quantità infinite di energia e informazione. Oppure potrebbero costruire universi «neonati» e trasferirvi se stessi (o almeno una serie di istruzioni per ricostruire se stessi). In questo modo, la vita continuerebbe.

I limiti ultimi della vita, in ogni caso, diverrebbero significativi solo su scale temporali realmente cosmiche. Tuttavia ad alcuni potrà apparire spiacevole che la vita, almeno nella sua incarnazione fisica, debba giungere a un termine. Per noi è notevole che, anche con le nostre conoscenze limitate, sia possibile trarre conclusioni su problemi così immani; forse essere consapevoli del nostro affascinante universo e del nostro destino al suo interno è un dono più grande che potervi abitare per sempre.
LAWRENCE M. KRAUSS e GLENN D. STARKMAN considerano le loro elucubrazioni sul futuro della vita come un’estensione naturale del loro interesse nei meccanismi fondamentali dell’universo. Krauss, che è preside del Dipartimento di fisica della Case Western Reserve University a Cleveland, è stato uno fra i primi cosmologi a sostenere che l’universo è dominato da una costante cosmologica: un’opinione oggi ampiamente condivisa. Starkman, anch’egli docente alla Case Western, è noto soprattutto per i suoi lavori sulla topologia dell’universo.

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