I padroni della vita

cromosomi

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Giudici, scienziati esperti di etica ed esaminatori di brevetti continuano a sprofondare in dibattiti destinati a inasprirsi nella nuova era della medicina personalizzata e della ricerca sulla genomica e sulla proteomica, che studieranno l’attività combinata di diversi geni o proteine. I medici si baseranno sempre più su test brevettati che permetteranno di somministrare i farmaci più idonei a pazienti schedati geneticamente. I ricercatori stanno già investigando il funzionamento di interi genomi, e potenzialmente molte delle molecole biologiche impiegate in questi studi potrebbero essere gravate da accordi di licenza che impedirebbero il loro uso per la progettazione di nuove terapie.

 La madre di tutte le sentenze

La domanda «chi è proprietario della vita?» è stata già posta in passato. Ma lo studio dei ricercatori del MTT, che traccia un quadro dell’intreccio tra proprietà intellettuale e biologia molecolare, è caduto proprio nel venticinquesimo anniversario di una sentenza storica da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti. Nella sentenza si affermava che le «cose» viventi sono brevettabili nella misura in cui incorporano un intervento umano: in altre parole, se sono «fatte» dall’uomo.

Nel 1972, Ananda M. Chakrabarty, un ingegnere della General Electric, aveva presentato domanda di brevetto per un ceppo del batterioPseudomonas in grado di sciogliere le chiazze di petrolio in maniera più efficace rispetto all’impiego contemporaneo di più ceppi. Chakrabarty non aveva creato il suo batterio con ciò che chiamiamo «ingegneria genetica». A quell’epoca le tecniche di splicing del DNA ricombinante, che permettono di ottenere le sequenze genetiche desiderate anche unendo DNA di specie differenti, non erano ancora state inventate. L’ingegnere aveva armeggiato con il batterio in modo classico per riuscire a fargli accettare plasmidi (anelli di DNA di altri ceppi) con le proprietà desiderate. L’Ufficio brevetti respinse la domanda di Chakrabarty con la motivazione che i «prodotti della natura» che sono «organismi viventi» non possono essere brevettati.

Quando nel 1980 la Corte Suprema decise di accogliere il ricorso in appello del caso, il panorama della biologia molecolare era mutato radicalmente. Lo splicing del DNA era diventato una pratica comune. Proprio quell’anno era stata fondata un’azienda, la Amgen, con l’intento di trarre profitto dalla nascente tecnologia del «copia-e-incolla» genetico. Era appena stato pubblicato uno studio che spiegava in dettaglio come le tecniche di ricombinazione fossero state usate per sintetizzare l’interferone. Herbert Boyer e Stanley Cohen avevano brevettato una tecnologia chiave per la manipolazione del DNA. Si respirava un clima di euforia tecnologica, e il Congresso approvò il Bayh-Dole Act, una legge che consentiva alle università di impegnarsi in accordi esclusivi di licenza per tecnologie da loro brevettate. Lo Stevenson Wydler Act autorizzò i National Institutes of Health e altre agenzie federali a fare lo stesso.

I giudici della Corte Suprema esaminarono memorie che contenevano motivazioni sia favorevoli sia contrarie alla concessione del brevetto a Chakrabarty. Gruppi di pressione che andavano da Genentech al collegio dei rettori dell’Università della California raccomandarono che il brevetto fosse concesso, citando i vantaggi che avrebbe portato nel campo dello sviluppo dei farmaci, del risanamento ambientale, delle nuove fonti di energìa. La Peoples Business Commission, un’organizzazione non profit guidata, tra gli altri, da Jeremy Rifkin, denunciò la mercificazione della vita e i disastri ambientali che avrebbe causato.

Warren Burger, presidente della Corte, respinse le obiezioni alla brevettabilità della vita giudicandole irrilevanti, affermando che «qualsiasi cosa sia realizzata dall’uomo» può essere brevettata. L’unico dilemma per la Corte era se il batterio fosse un «prodotto della natura» o una «invenzione umana». «Einstein non avrebbe potuto brevettare la sua celeberrima equazione E=mc2, né Newton la legge di gravita», riconosceva il verdetto. Ma in quanto «prodotto dell’ingegno umano», per il batterio ottenuto da Chakrabarty il discorso era diverso. Respingendo l’«agghiacciante parata degli orrori» di Rifkin, la Corte asserì di non poter intralciare il progresso. «La grande quantità di ricerche che sono già state condotte quando nessun ricercatore aveva la certezza che sarebbero state brevettabili suggerisce che l’autorizzazione legislativa o giudiziaria riguardo alla brevettabilita non impedirà alla scienza di sondare l’ignoto», osservò Burger.

Dopo la sentenza, approvata con cinque voti favorevoli e quattro contrari, l’industria e il mondo accademico si sono rifatti all’ampia interpretazione di brevettabilita definita nel caso Chakrabarty per brevettare non soltanto geni, ma anche interi organismi e cellule, comprese le staminali. I primi brevetti sui geni hanno seguito la scia della tradizione dei brevetti sulle sostanze chimiche. La Incyte, in verità, non ha i diritti sul gene per il recettore dell’istamina presente nel vostro organismo, ma soltanto per una sua forma «isolata e purificata». (A volte gli esaminatori dei brevetti o i tribunali hanno invocato il divieto alla schiavitù fissato nella Costituzione degli Stati Uniti per spiegare la ragione per cui non è possibile concedere un brevetto su un essere umano o su una parte del suo corpo.) Un brevetto su un gene isolato e donato e sulla proteina che produce garantisce al titolare i diritti esclusivi di commercializzazione della proteina – per esempio l’insulina o l’ormone umano della crescita – allo stesso modo in cui un’azienda chimica potrebbe presentare domanda di brevetto per una procedura che permetta di purificare la vitamina B.

Piccolo sforzo, meno originalità

L’enorme sviluppo tecnologico che si è registrato negli anni novanta ha destabilizzato il nuovo status quo che si era venuto a creare. Le tecnologie di sequenziamento del DNA ad alta velocità sviluppate in quel periodo, e usate nel Progetto Genoma Umano, hanno reso meno chiara l’analogia con i brevetti chimici.
Per capire meglio cosa è successo, introduciamo un particolare concetto che va sotto il nome di expressed sequence tag (EST). L’EST è un segmento di DNA, in genere lungo centinaia di nucleotìdi, di cui si conosce l’esatta sequenza, situato a una delle estremità di un gene, e può essere usato come sonda per ottenere rapidamente tutto il gene in questione da un cromosoma. I ricercatori hanno iniziato a richiedere brevetti sugli EST senza sapere davvero che cosa facessero: spesso cercavano di indovinare la funzione biologica dei frammenti di gene rovistando tra database di proteine e DNA «Un lavoro che comporta pochissimo sforzo e una quasi totale assenza di originalità», ha osservato Bruce Alberts, presidente della National Academy of Sciences.

La motivazione addotta per la concessione di brevetti sugli EST era che queste sequenze di DNA dalla funzione poco chiara potevano servire come strumenti di ricerca, ed era proprio questa motivazione a preoccupare gran parte della comunità scientifica. I titolari di brevetti di EST potrebbero richiedere ai ricercatori i diritti di sfruttamento per il loro uso, gravando la ricerca medica di ulteriori spese e lungaggini burocratiche, e ostacolando lo sviluppo di nuovi strumenti diagnostici e terapeutici. In un articolo del 1998 pubblicato su «Science», Rebecca S. Eisenberg, dell’Università del Michigan ad Ann Arbor, e Michael A. Heller, attualmente alla Columbia Universiry Law School, esprimevano preoccupazione per l’emergere di una «anticondivisione», l’antitesi della tradizionale condivisione del sapere scientifico, a cui tutti gli scienziati attingono liberamente. Questa preoccupazione era accentuata da alcune domande di brevetto che riguardavano sia gli EST sia le sequenze di DNA a loro adiacenti. In teoria, la richiesta poteva tradursi nella concessione di diritti di proprietà per un intero cromosoma.

Un’ulteriore obiezione, di carattere più intellettuale, ha riguardato l’uso degli EST per localizzare con precisione dei geni, una procedura che avviene in un database e non in un laboratorio. Il valore degli EST si concretizza più come informazione che come uno dei «processi, macchine, manufatti e composizioni di materia» tangibili che presentano i requisiti di brevettabilità. Le idee astratte sono state tradizionalmente considerate estranee al concetto di brevetto, anche se negli ultimi dieci anni un certo numero di casi giudiziali ha reso meno chiara questa distinzione.

Permettere di brevettare l’informazione minaccerebbe quell’equilibrio che costituisce il cardine dell’intero sistema. In cambio di un monopolio di vent’anni, chi richiede un brevetto è tenuto a fornire informazioni in modo che altri possano servirsi di quelle conoscenze per far progredire la tecnologia esistente. Ma come può funzionare il tradizionale meccanismo di scambio se l’informazione stessa è brevettata? Possiamo dire che l’atto puro e semplice di impiegare quel sapere in una ricerca scientifica corre il rischio di essere considerato una violazione?

In risposta ad alcune di queste domande, nel 2001 l’Ufficio brevetti americano ha perfezionato nuove direttive che hanno guidato gli esaminatori alla ricerca di «un’utilità specifica e sostanziale» nella concessione di brevetti in campo biotecnologico. In molte altre tecnologie, il criterio di utilità è secondario rispetto ad altri perché la maggior parte degli inventori non cerca tutela per scoperte che non hanno valore. Per quanto riguarda i brevetti sulla vita, stabilire l’utilità di un’invenzione è diventato un filtro cruciale per mantenere un controllo sulla qualità dei brevetti stessi. Definire una sequenza di DNA semplicemente come sonda genica o marcatore di cromosomi non è sufficiente a soddisfare i nuovi criteri.

Questi cambiamenti hanno prodotto delle conseguenze. Secondo la National Academy of Sciences fino a oggi è stato concesso soltanto un piccolo numero di brevetti sugli EST. Un’importante conferma dell’approccio volto a eliminare sia i brevetti inutili sia quelli che hanno un campo di applicazione eccessivamente ampio è giunta con una decisione della Corte d’Appello del 7 settembre 2005. In quella occasione la Corte ha difeso il rifiuto dell’Ufficio brevetti riguardo a una domanda di brevetto della Monsanto su cinque EST ricavati dalle piante che non erano collegati a una precisa malattia. I brevetti sarebbero stati l’equivalente di «una licenza di caccia, in quanto gli EST oggetto della rivendicazione possono essere impiegati soltanto per ottenere ulteriori informazioni sui geni a loro collegati», era scritto nella sentenza.

Un sondaggio della National Academy of Sciences, illustrato nel rapporto Reaping thè Benefits ofGenomic and Proteomic Research pubblicato a novembre 2005, ha ottenuto risposte da 655 ricercatori selezionati tra università, laboratori governativi e industria. Il questionario riguardava l’effetto dei brevetti biologici sulla ricerca genomica, proteomica e farmacologica. Lo studio ha rivelato che soltanto per l’otto per cento degli accademici le ricerche da loro effettuate nei due anni precedenti allo studio aveva qualcosa a che fare con brevetti detenuti da altri; il 19 per cento non sapeva se le loro ricerche fossero state oggetto di brevetto; infine, il 73 per cento affermava di non aver bisogno di usare brevetti altrui. «Per ora sembra che per i ricercatori universitari in campo biomedico l’accesso alle invenzioni brevettate o alle informazioni sia raramente un problema significativo», concludeva il rapporto.
Anche il numero delle domande di brevetto è diminuito notevolmente. Secondo i dati pubblicati di recente su «Nature Biotechnology», i brevetti che si riferiscono agli acidi nucleici o a espressioni strettamente collegate hanno raggiunto quota 4500 nel 2001, e sono diminuiti nei tre anni successivi. Una tendenza forse dovuta anche al fatto che l’Ufficio brevetti ha reso più severi i criteri di utilità.
Parte della diminuzione può essere attribuita anche al successo di un movimento open source nelle scienze biomediche, simile a quello verificatosi nelle tecnologie informatiche. Nel 1996 gli scienziati di tutto il mondo, sia nel settore pubblico sia in quello privato, idearono quelle che vengono chiamate «Bermuda Rules», che specificano come tutte le informazioni sulle sequenze di DNA che rientrano nel Progetto Genoma Umano debbano essere rese pubbliche. In seguito, la condivisione dei dati fu incoraggiata anche per altri progetti su larga scala, come il Single Nucleotide Polymorphism Consortium, che mappava la variazione genetica del DNA umano. In alcuni casi, i ricercatori hanno ottenuto brevetti a scopo «difensivo», cioè per assicurarsi che nessun altro si appropri della conoscenza di base. Le aziende e le istituzioni che si occupano di sanità pubblica e sono impegnate nel sequenziamento del virus della SARS stanno cercando di mettere insieme un «pool brevettuale» per assicurare che il genoma del virus possa essere liberamente accessibile a tutti i ricercatori.

 

Titolare dei brevetti Numero di brevetti al 14-09-2005
Università della California 1018
Governo degli Stati Uniti 926
SanofiAventis 587
GlaxoSmithKline 580
Incyte 517
Bayer 426
Chiron 420
Genentech 401
Amgen 396
Human Genome Sciences 388
Wyeth 371
Merck 365
Applera 360
Università del Texas 358
Novartis 347
Johns Hopkins University 331
Pfizer 289
Massachusetts General Hospital 287
Novo Nordisk 257
Harvard University 255
Stanford University 231
Lilly 217
Affymetrix 207
Cornell University 202
Salk Institute 192
Columbia University 186
Università del Wisconsin 185
Massachusetts Institute of Technology 184

Questo sposare la causa dell’interesse pubblico ha silurato l’idea di costruire un business su informazioni di pubblica utilità. Nei primi anni del nuovo secolo Celerà e Incyte, aziende leader nel settore della genomica, hanno operato una ristrutturazione per convertirsi alla ricerca farmacologica. Craig Venter, che ha diretto la ricerca privata che ha sequenziato il genoma umano, ha lasciato la Celerà ed è diventato critico. «La storia ha provato che quei brevetti sui geni non valgono nemmeno la carta su cui sono scritti, e i soli che ci hanno guadagnato qualcosa sono stati gli avvocati che se ne sono occupati», ha commentato in una conferenza del 2003.

Il blocco della ricerca di base causato da un groviglio di brevetti non si è materializzato perché gli accademici tendono a non rispettare la proprietà intellettuale. La ricerca a scopi non commerciali, secondo loro, ha diritto a un’esenzione. Tuttavia un caso del 2002 – in cui il fisico John M.J. Madey ha querelato la Duke University – ha privato le università e le altre istituzioni non profit di qualsiasi status privilegiato. La Corte ha stabilito che la ricerca a scopi non commerciali promuove gli «scopi commerciali legittimi» di un’università, e pertanto sia gli strumenti sia i materiali di ricerca, incluso il DNA, non meritano alcuna esenzione. Di solito i titolari dei brevetti non hanno molto interesse ad andare nei laboratori per scoprire chi commette violazioni. Ma secondo il sondaggio della National Academy of Sciences, sull’onda della sentenza del 2002 il numero di denunce da parte dei titolari di brevetto è aumentato sensibilmente, anche se questo incremento non ha causato gravi sconvolgimenti. Una crescente consapevolezza della mancanza di un’esenzione potrebbe portare a un ambiente di ricerca più restrittivo, ragion per cui la commissione della National Academy of Sciences ha raccomandato al Congresso di stabilire per legge il diritto all’esenzione.
Seri ostacoli alla proprietà intellettuale possono iniziare a comparire con il progredire di genomica e proteomica. «Il carico che graverebbe sul ricercatore che vuole ottenere i diritti di proprietà intellettuale su geni o proteine potrebbe diventare insostenibile, a seconda dell’ampiezza del campo di applicazione e di come i titolari dei brevetti reagiscono a potenziali violazioni», ha fatto notare la commissione.

Genomica e proteomica stanno iniziando a dare dei frutti sotto forma di diagnostica medica e di farmaci. «Le questioni di proprietà si fanno sentire quando ci si avvicina al mercato», afferma Barbara Caulfield, vicepresidente della Affymetrix, la società che ha brevettato la tecnologia GeneChip e che si è opposta al brevetto sul DNA perché potrebbe ostacolare il suo campo di ricerca.
Ci sono già, afferma la Caulfield, esempi di brevetti con un campo di applicazione molto ampio che pesano sia sull’industria sia sul mondo accademico. La Genetic Technologies, una società australiana, detiene diritti di proprietà che sta usando per stipulare accordi di licenza sia con aziende sia con università che conducono ricerche sulla parte del genoma che non viene espressa. La portata del campo di applicazione dei suoi brevetti – che interessano i metodi per ottenere informazioni da quel 95 per cento del genoma che è erroneamente chiamato DNA spazzatura – farebbe sgranare gli occhi alla maggior parte degli scienziati. La Genetic Technologies, tuttavia, ha già concluso accordi di licenza con colossi come il gigante americano delle biotecnologie Genzyme, e alla fine del novembre 2005 ha dichiarato che stava per concludere un accordo con Applera, società madre di Celerà e Applied Biosystems.

Mantenere l’ordine pubblico

Le autorità politiche e giuridiche americane hanno assunto un approccio non restrittivo alla commercializzazione di nuove biotecnologie. Le questioni etiche, filosofiche e sociali raramente sono entrate nel merito dei processi decisionali che riguardano l’estensione del brevetto a esseri viventi. Nel caso di Chakrabarty, la Corte ha motivato la decisione in parte citando Thomas Jefferson: «L’ingegnosità merita un incoraggiamento liberale».

Nel 1988, otto anni dopo la sentenza Chakrabarty, l’Ufficio brevetti ha concesso il brevetto numero 4.736.866, per «l’oncotopo di Harvard», un topo che i ricercatori della Harvard University hanno modificato geneticamente in modo da predisporlo al cancro. La giustificazione per la concessione del brevetto si poteva ricollegare direttamente al ragionamento dei giudici per il caso Chakrabarty: l’aggiunta del gene che rendeva il topo suscettibile al tumore ha fatto della cavia «un’invenzione» dell’uomo. I ricorsi che cercarono di ribaltare la sentenza non portarono a nulla.

Non tutti i paesi si sono occupati della questione della brevettabilità di organismi più evoluti con la stessa propensione utilitaristica dimostrata da tribunali e burocrati americani. Di recente il Canada ha preso una decisione completamente diversa riguardo al topo geneticamente modificato: in una sentenza d’appello, la Corte Suprema canadese ha respinto il brevetto di Harvard sull’oncotopo. Nel 2002 ha stabilito che la definizione «composizione di materia» – in pratica un prodotto inventato che sia brevettabile – non si doveva applicare al topo. «Il fatto che le forme di vita animali abbiano numerose caratteristiche uniche che trascendono la materia di cui sono composte, rende difficile concettualizzare le forme più evolute come mere composizioni di materia», ha sostenuto il giudice Michel Bastarache. «È una definizione che pare inadeguata a descrivere una forma di vita più evoluta».

Anche l’Europa è stata più cauta rispetto agli Stati Uniti nell’accogliere l’oncotopo. L’Ufficio brevetti europeo ha ristretto il campo di applicazione della proprietà intellettuale soltanto ai topi e non a tutti i roditori. Ha operato in questo modo facendo riferimento a una disposizione del proprio diritto brevettuale che non trova corrispondenza nelle leggi degli Stati Uniti. Si tratta dell’articolo 53 della Convenzione europea sui brevetti, che vieta i brevetti pericolosi per «l’ordine pubblico o la moralità».

Gli europei hanno esaminato tutti i brevetti sui geni responsabili del cancro al seno detenuti dalla Myriad Genetics. Negli Stati Uniti, i brevetti sui geni diagnostici hanno ostacolato sia la ricerca sia la medicina clinica. La Myriad si è servita dei diritti di proprietà per fermare i più grandi centri di ricerca sul cancro che volevano sviluppare economici test «fai-da-te» per i geni del cancro al seno denominati BRCA-1 e BRCA-2. In Europa, una coalizione di istituti di ricerca ha contestato i brevetti della Myriad, invalidandone alcuni e limitandone altri. Grazie a questa riduzione, ora i test sono gratuiti per tutti eccetto che per le donne ebree ashkenazite, costrette a pagare la tassa di concessione all’azienda americana perché le mutazioni che sono ancora coperte dai brevetti della Myriad sono più comuni in queste donne. Per legge un medico deve chiedere a una donna se è ebrea ashkenazita, fatto che ha sollevato furiose proteste da parte dei medici.

È improbabile che le stesse scene si ripetano negli Stati Uniti. Nel caso di Chakrabarty, la Corte Suprema ha ricordato che il tipo di questioni etiche sollevate dal gruppo di Rifkin dovrebbe essere affrontato dal Congresso, ma fino a oggi tutti i tentativi di legiferare in materia sono stati vanificati. Se mai si avrà un cambiamento radicale, è più probabile che avvenga ancora una volta attraverso l’esame della Corte Suprema di uno dei punti cardine della sentenza Chakrabarty: la definizione della linea di confine, sempre in movimento, tra leggi della natura e invenzione.

Gli avvocati aspettano con trepidazione una sentenza della Corte Suprema attesa per quest’anno che potrebbe aiutare a chiarire quanto poter spostare i confini di ciò che un tempo era considerato non brevettabile. L’Alta Corte ha accettato di procedere all’audizione di una causa tra Laboratory Corporation of America e Metabolite Laboratories che determinerà se la semplice correlazione di un livello elevato di omocisteina, un amminoacido, con una deficienza di vitamina B «possa legittimamente permettere dirivendicare un monopolio su un meccanismo biologico elementare, in modo che qualsiasi medico violerebbe necessariamente il brevetto semplicemente pensando a questa relazione dopo aver letto il risultato del test», per usare le parole della Laboratory Corporation of America, che ha intentato la causa. La rivendicazione del brevetto copre la correlazione in sé, e non l’attrezzatura elettrica e meccanica impiegata per il test. Il caso è di grande interesse non soltanto per l’industria biotecnologica, dove l’informazione ha assunto sempre più valore, ma anche per l’industria informatica, dove persino la brevettabilità di software e tecniche commerciali è divenuta motivo di disputa. «Il caso potrebbe avere un impatto non solo sulla brevettabilità del DNA, ma anche su aree emergenti come la nanotecnologia e la biologia sintetica», afferma Arti K. Rai, professore di diritto alla Duke University.

Con il progredire della tecnologia, i tribunali si troveranno sempre più alle prese con il significato della frase «qualsiasi cosa sia realizzata dall’uomo». Armeggiare con un singolo gene in un topo – o il semplice atto di rilevare una relazione tra due molecole – è sempre sufficiente a conferire a un «inventore» un monopolio per vent’anni?

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