I complici della telecrazia berlusconiana

Dalema e berlusconiII nodo delle tv, ridotto all’osso, è un intreccio di quattro fili.
1) Se fosse rispettata la legge del 1957 (voluta da Mario Scelba, noto bolscevico) sull’ineleggibilità dei concessionari pubblici, Silvio Berlusconi dovrebbe cedere le sue tv oppure non potrebbe metter piede in parlamento.

2) Se esistesse una vera legge sul conflitto d’interessi, Silvio Berlusconi non potrebbe ricoprire alcuna carica pubblica, tantomeno la più alta, quella di presidente del Consiglio.

3) Se esistesse una legge antitrust in materia radiotelevisiva, anche se Silvio Berlusconi si ritirasse a vita privata non potrebbe possedere tre reti tv sull’analogico terrestre, ma dovrebbe scendere a una (come previsto in tutti i paesi democratici, salvo alcuni come la Spagna che abbassano ulteriormente il tetto al 50% di una), o al massimo a due (come prescritto da due sentenze della Corte costituzionale), cedendo le relative frequenze ad altri soggetti e aprendo il mercato a una vera concorrenza.

4) Se anche in Italia esistesse una tv veramente «pubblica», i partiti non potrebbero spadroneggiare sulla Rai e Silvio Berlusconi non ne controllerebbe due reti su tre.

Per riportare alla normalità un sistema affetto da questa quadruplice, mostruosa anomalia, occorrono dunque quattro leggi che stabiliscano, nell’ordine: ineleggibilità di Berlusconi se non vende tutte le sue tv (già prevista dalla legge del ’57, allegramente violata da 12 anni); incompatibilità di Berlusconi con incarichi di governo se non vende le sue tv; tetto antitrust di una rete analogica terrestre per ciascun soggetto privato, con relativa soglia per la raccolta pubblicitaria e conseguente redistribuzione delle frequenze da parte dello Stato (e non dei soggetti che abusivamente le occupano, praticamente gratis, dagli anni Ottanta); riforma per una Rai «alla Zapatero» (o «alla Bbc», o alla tedesca, o alla francese e così via).

Tutto il resto è chiacchiera. Se il centro-sinistra che si candida a governare l’Italia non è in grado di impegnarsi su questi quattro punti, come dimostra in questi giorni intenerendosi appresso agli allarmi preventivi d Giuliano Ferrara, Piero Ostellino, Pigi Battista, Franco Debenedetti, Fedele Confalonieri & C. sul rischio «piazzale Loreto», vuol dire che la legge non scritta ma ferrea dell’inciucio in materia televisiva è più che mai in vigore. E che l’eventuale governo dell’Unione, così come quelli del Pentapartito, del Polo, dell’Ulivo e della Casa delle libertà che si sono succeduti dagli anni Ottanta a oggi, non intende risolvere un bel nulla. Nella speranza di essere smentiti dai fatti, ecco un brve promemoria delle puntate precedenti.

Soccorso rosso

II 7 dicembre ’94 la Corte costituzionale dichiara illegittima la legge Mammì che aveva santificato il monopolio berlusconiano sulla tv commerciale e ne intima l’abrogazione perché viola l’articolo 21 della Costituzione: «II legislatore è vincolato ad impedire la formazione di posizioni dominanti nell’emittenza privata e favorire i pluralismo delle voci nel settore televisivo, […] nel senso che l’esistenza di un’emittenza pubblica non vale a bilanciare la posizione dominante di un soggetto privato. […] 11 legislatore […] doveva contenere e gradualmente ridimensionare la concentrazione esistente e non già legittimarla stabilmente, non potendo esimersi dal considerare che la posizione dominante data dalla titolarità di 3 reti su 9 assegna un esorbitante vantaggio nella utilizzazione delle risorse e della raccolta della pubblicità».

Il parlamento ha tempo fino al 27 agosto 1996 per provvedere, dopodiché una delle tre reti Fininvest deve passare di mano. Due settimane dopo, il 22 di cembre ’94, la Lega Nord rovescia il primo governo Berlusconi. Il Cavaliere è disperato: sa che il nuovo governo dovrà levargli una rete proprio alla vigilia della quotazione in Borsa del suo gruppo televisivo (ribattezzato Mediaset), in cantiere da mesi per azzerare i 6 mila miliardi di debiti. Ed entro pochi mesi gli italiani andranno a votare per tre referendum, promossi dalle Acli, dall’Arci e dal Gruppo di Fiesole (un’associazione di giornalisti di sinistra), che prevedono una cura dimagrante per il Biscione: da tre reti a una, tagli sostanziosi alla raccolta pubblicitaria, divieto di spot durante i film. Ma ecco entrare in azione, per la prima volta, il soccorso rosso. Massimo D’Alema, negli ultimi giorni dell’anno, incontra Berlusconi in casa di Gianni Letta, nel quartiere romano della Camilluccia. È lui stesso a rivelarlo, il 10 gennaio ’95, ospite di Gianfranco Funari su Rete4:

«Sono stato a cena con Berlusconi, ospite del dottor Letta, e ho discusso con lui serenamente per tutta la serata spiegandogli la nostra posizione». Pare che i due abbiano parlato solo del nuovo governo (il Cavaliere vuole le elezioni subito, la sinistra lavora a un governissimo che nascerà di lì a poco, presieduto da Lamberto Dini). Ma il 28 febbraio 2002 Luciano Violante rivelerà alla Camera che in quei giorni s’è parlato di ben altro:

Berlusconi sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – non adesso, nel 1994 quando ci fu il cambio di governo -che non sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta.

In barba alla sentenza del dicembre ’94 della Consulta. Per addolcire la furia del Cavaliere, in quel gennaio ’95, il governo Dini nomina ministri della Giustizia e delle Telecomunicazioni due suoi fedelissimi: Filippo Mancuso e Agostino Gambino (già avvocato di Michele Sindona, poi legale della famiglia Formenton alleata di Berlusconi nella guerra di Segrate per il controllo della Mondadori, e infine prescelto dal Cavaliere come uno dei tre «saggi» per il fantomatico blind trust che nel ’94 avrebbe dovuto separarlo dalla Fininvest). Mancuso comincia ad attaccare i pm di Milano e di Palermo. Gambino si guarda bene dal metter mano alla legge sulle tv sulla linea tracciata dalla Consulta. Ma c’è il problema dei referendum di primavera. Berlusconi fa di tutto per farlo fallire, e comincia ad annunciare che sta per vendere le sue tv (mentre in segreto prepara la calata in Borsa), incontrando anche Rupert Murdoch per rendere più credibile la superballa. Poi avvia consultazioni con i partiti di sinistra per risolvere la cosa con una legge. Tanto basta ai Ds per disimpegnarsi nella campagna referendaria per il sì (mentre la Fininvest inonda l’Italia di spot per il no) e impelagarsi in un negoziato che, ovviamente, non porterà a nulla. Così l’11 giugno 95 il referendum fallisce: «II motivo principale», commenta Norberto Bobbio, «per cui Berlusconi ha vinto il referendum che tendeva a diminuire il suo potere televisivo è stato il fatto stesso che aveva questo potere». E questa «è la prova di fatto, più forte di qualsiasi discorso, che avevano ragione coloro che [a quel potere] si sono opposti, seppure forse in una forma maldestra, e con tinueranno a opporsi con maggiore abilità, spero, per la sorte della nostra democrazia». Ma subito D’Alema rassicura il Cavaliere: «II Pds non voterà mai una legge antitrust che non sia votata anche dal Polo». In pratica, chiede al tacchino di saltare in pentola per il pranzo di Natale. Poi invita il Cavaliere al congresso Ds.

La tesi e l’antitesi

A fine anno la legislatura si spegne senza una legge sulle tv. E ci vuole la voce grossa di Prodi e Fini per evitare un rinvio del voto per un «governissimo» Maccanico, caldeggiato da Silvio e Massimo. Alle elezioni del 21 aprile 1996 vince l’Ulivo di Prodi con un programma che, alla tesi 51 («L’informazione»), promette di rompere il «sostanziale duopolio Rai-Fininvest che rende estremamente difficile l’ingresso di nuovi operatori» e si da un «obiettivo finale» ambizioso: «consentire a ogni editore di avere un solo canale generalista via etere terrestre e di cedere quelli in più»; e un «obiettivo intermedio»: «la contestuale cessione di una delle reti generaliste da parte sia della Rai che di Fininvest e l’apertura ad altre forme di offerta televisiva». E poi, dulcis in fundo, un nuovo «sistema di nomina» per la Rai affidato a un’«autorità indipendente, cui spetterà nominare una commissione di garanti che sceglierà il presidente e i consiglieri dell’azienda che […] dovranno poter operare in piena autonomia».

Prodi, il 19 gennaio ’95, è stato chiaro: «Bisogna privatizzare anche la Fininvest. Restituirla al mercato. La legge Mammì ha sancito il duopolio Rai-Fininvest, che Berlusconi al potere ha trasformato in monopolio. Quindi non solo va abolita la pessima Mammì, ma va soprattutto corretta la posizione dominante di Berlusconi, che rischia di cancellare le regole della democrazia. In nessun paese al mondo sarebbe tollerata questa situazione. Ma dove mai una persona è contemporaneamente leader politico e proprietario di un sistema tv? Ma scherziamo?».

Anche D’Alema, all’epoca, era categorico: «Si rimuove la legge Mammì, si fa tabula rasa, si riparte da zero. E si fa l’Antitrust assumendo come base la sentenza della Corte costituzionale che dichiara illegittima la proprietà di tre reti tv da parte di un unico soggetto» (21 maggio ’95). Poi però, a due settimane dal voto, ha virato a «U»: il 4 aprile ’96 ha reso visita agli studi del quotando Biscione, spiegando a dirigenti e maestranze che «Mediaset è un patrimonio per l’Italia, è un’impresa strategica che deve poter affrontare serenamente il futuro in un quadro di regole certe e all’altezza di un paese europeo». Gli sfugge, forse, che il patrimonio per l’Italia sono le frequenze, mentre Mediaset, che le frequenze ha in concessione dallo Stato, è un patrimonio di Berlusconi. L’incontro si svolge negli studi di Stranamore., presenti fra gli altri Fedele Gonfalonieri. Emilio Fede, Paolo Liguori e il Gabibbo: «Voi», promette il leader Ds, «non dovete avere timore del giorno dopo. Non ci sarà nessun day after. Avremo la serenità sufficiente per trovare intese». E aggiunge che la sinistra deve liberarsi da posizioni culturali «elitarie e snobistiche» e convertirsi a una «visione flessibile, non rigida, del concetto di antitrust». Infine mette sullo stesso piano l’anomalia Mediaset e il servizio pubblico: «Come è un’anomalia che un gruppo privato disponga attraverso concessioni pubbliche di tre reti televisive, così è altrettanto anomalo che la tv pubblica sia anche tv commerciale». Prodi, nei giorni seguenti, ribadisce che «la prima cosa che faremo al governo sarà attuare la sentenza della Corte costituzionale del 1994: quella che comportava la riduzione delle reti Fininvest via etere da tre a due». Non glielo lasceranno fare.

Un Maccanico per la tv

Al dicastero chiave delle Telecomunicazioni va un uomo tutt’altro che sgradito al padrone di Mediaset: Antonio Maccanico, buon amico fra l’altro di Renato Squillante. Per la verità, il neoministro parte bene, presentando il 17 luglio ’96 una riforma del sistema suddivisa in due disegni di legge. Il primo (n. 1138) prevede il riordino del sistema radiotelevisivo con tanto di norme antitrust da applicare a partire dal 28 agosto 1997. Il secondo (n. 1021) disegna i contorni della neonata authority per le Comunicazioni. Ma proprio lo stesso giorno, da una prodigiosa intesa D’Alema-Berlusconi, nasce la Bicamerale per riscrivere la seconda parte della Costituzione. I giornali parlano di un inciucio parlamentare Polo-Ulivo che scavalca il governo Prodi: merce di scambio, il futuro delle tv e i processi del Cavaliere. Il 27 agosto, però, scade l’ultimatum della Consulta per Rete4, e il ministro – previo incontro con Letta – provvede con un decreto ad hoc a prorogare l’autorizzazione alla tv «abusiva» del Cavaliere sino a fine anno.

In autunno i due ddl Maccanico approdano alla commissione Lavori pubblici e Telecomunicazioni del Senato, presieduta da Claudio Petruccioli. Lì il Polo inizia un fuoco di sbarramento a base di migliaia di emendamenti, ostruzionismo, richieste continue del numero legale. E paralizza i lavori. Maccanico, a dicembre, sigla un altro patto col Polo, nella persona del capogruppo forzista Beppe Pisanu: riforma della giustizia in Bicamerale e nuova proroga di Rete4 in cambio della fine dell’ostruzionismo. Alla fine, la montagna della grande riforma tv partorisce il topolino. I due ddl Maccanico approdano all’aula del Senato. Ma qui, nel luglio ’97, viene approvato soltanto quello gradito al Polo: il 1021 che istituisce l’authority, necessaria per privatizzare la Stet. C’è anche una tìmida norma antitrust, ma è solo fumo negli occhi: nessuno potrà raccogliere più del 30 per cento della pubblicità tv né detenere più del 20 per cento delle frequenze nazionali disponibili; ma a far rispettare quelle barriere deve pensarci la nuova authority, che potrà entrare in azione solo quando esisterà in Italia «un effettivo e congruo sviluppo dell’utenza dei programmi televisivi via satellite o via cavo». Fino ad allora la norma resterà lettera morta e Rete4 seguiterà a trasmettere su terrestre.

Che diavolo vuoi dire «congruo sviluppo» del satellite? Nessuno lo sa. In attesa di capirlo, tutto resta corn’era. Ecco perché Forza Italia ha votato la riforma. Ed ecco perché, il 20 novembre 2002, la Consulta dichiarerà incostituzionale pure la Maccanico, imponendo un nuovo ultimatum a Rete4 al 31 dicembre 2003 («La situazione di ristrettezza delle frequenze disponibili per la televisione analogica si è accentuata, con effetti ulteriormente negativi sui principi di pluralismo. L’attuale sistema non garantisce l’attuazione del principio del pluralismo informativo»). Il resto della «grande riforma», il disegno di legge 1138, torna mestamente alla commissione Lvori pubblici e lì si inabissa nelle sabbie mobili per tre anni, sotto lo sguardo sonnacchioso del presidente Petruccioli e sotto il fuoco concentrico degli emendamenti berlusconiani. Non vedrà mai la luce. In compenso Petruccioli, nella nuova legislatura, diverrà presidente della Vigilanza con i voti della Cdl e presidente della Rai per investitura del Cavaliere. Nell’ottobre ’98 cade il governo Prodi, rimpiazzato da D’Alema e poi da Amato.

Il nuovo ministro delle Telecomunicazioni è il siciliano Totò Cardinale, un ex di Forza Italia trasmigrato nell’Edeur. Nel settore tv non si muove più nulla. Anche la legge sul conflitto d’interessi fa una brutta fine. Il relatore Elio Veltri, dipietrista, l’ha presentata il 23 aprile 1997 in commissione Anticorruzione. Ma subito dopo il presidente della Camera Violante ha trasferito la materia alla commissione Affari costituzionali, presieduta da Rosa Russo Jervolino, che destituisce Veltri da relatore e nomina al suo posto il forzista Franco Frattini: il quale, comprensibilmente, si oppone all’obbligo di cedere Mediaset per il Berlusconi politico e propone il solito blind trust per separare proprietà e gestione affidando le eventuali aziende del premier e dei suoi ministri a un fondo cieco. Scelto da chi? Ma dal titolare del conflitto, naturalmente.

Il 23 aprile 1998, in piena Bicamerale, la Camera vota con 461 voti a favore e un solo astenuto il testo all’acqua di rose di Frattini. Che, comunque, non vedrà ugualmente la luce. Uscita dalla Camera, la legge si arena al Senato e riprende a correre solo in zona Cesarmi nel 2001, a meno di cinque mesi dal voto. Troppo pochi perché la riforma, approvata dal Senato il 27 febbraio 2001 in una versione più hard (il fondo fiduciario non sarà scelto dal titolare del conflitto, ma dai presidenti dell’Antitrust, dell’authority delle Comunicazioni e della Consob), possa essere rivotata dalla Camera. Anche perché lì il Polo sfodera 1200 emendamenti e paralizza tutto fino alle elezioni del 15 maggio. Ormai Berlusconi sente odore di vittoria e infatti, di lì a poco, torna al governo. La legge sul conflitto d’interessi, firmata ancora da Frattini recuperando il testo soft votato dalla Camera nel ’98 ma vieppiù addolcito, passerà il 13 luglio 2004: cioè accuratamente dopo il varo della Gasparri-2.

Le ultime vergogne

Già, perché il 31 dicembre 2003 scade il termine concesso dalla Consulta per spedire Rete4 su satellite. L’apposito ministro delle Telecomunicazioni Maurizio Gasparri vara in tutta fretta una nuova legge incostituzionale sulle tv, che viene bocciata da Ciampi. Segue un nuovo decreto salva-Rete4, per dar tempo al parlamento di approvare la Gasparri-2 (avallata dal Quirinale, ormai disarmato), che calpesta per l’ennesima volta i dettami della Corte costituzionale. La Gasparri- 2 potrebbe cadere per sempre in sede di pregiudiziale di costituzionalità: molti deputati della Cdl sono assentì e 40 franchi tiratori votano contro. Ma a salvare le tv berlusconiane provvede il centro-sinistra, con le sue ben 30 assenze (compresi cinque segretari di partito: Bertinotti, Diliberto, Pecoraro Scanio, Mastella e Boselli). La pregiudiziale passa per soli 2 voti. La legge è un nuovo monumento al monopolio e al conflitto d’interessi, e nega la possibilità a Europa7 di Francesco Di Stefano delle frequenze necessarie per trasmettere su scala nazionale, come l’imprenditore avrebbe diritto di fare dal 1999, quando ottenne la concessione in una regolare gara bandita dallo Stato (e persa da Rete4).

Ora che i buoi sono scappati dalla stalla, a sinistra chiudono coraggiosamente le porte. D’Alema, nel 2001, riconosce che «Berlusconi era ed è ineleggibile» in base alla legge del ’57 e che, se fu dichiarato eleggibile scaricando l’ineleggibilità sul prestanome Gonfalonieri, è perché le varie maggioranze (nel ’94 il Polo, nel ’96 l’Ulivo e nel 2001 la Cdl) nella giunta per le elezioni della Camera fecero ricorso a una «finzione giuridica». È quello che gli avevano ripetuto, in tempo reale negli anni Novanta, intellettuali come Galante Garrone, Pizzorusso, Sylos Labini e riviste come MicroMega. Ma meglio tardi che mai. Nel settembre 2003, D’Alema ammette che «anche se avessimo fatto la legge sul conflitto d’interessi, non avremmo comunque risolto il problema, perché Berlusconi avrebbe fatto dono delle sue tv ai figli». Un’ammissione importante sull’esigenza di accompagnare alla legge sul conflitto d’interessi una severa legge antitrust. Peccato che, riavvicinandosi al potere nel 2006, il lìder Massimo abbia ricambiato idea. Oggi ha di nuovo smesso di parlare di ineleggibilità dei concessionari pubblici e di incompatibilità con le cariche di governo. E, a braccetto con Fassino, ha ripreso a farfugliare di «blind trust». Almeno fino a quando, intervistato il 27 marzo dal Mattino, ha avuto un’illuminazione: «Non capisco perché Berlusconi, se davvero ama la politica, non possa cedere la proprietà delle aziende ai suoi figli». Idea geniale: come non averci pensato prima?

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