Guerrieri italici

Massacro in Corea - Picasso 1951 (olio su tela, cm 110x210)

Massacro in Corea – Picasso 1951 (olio su tela, cm 110×210)

La guerra è tornata a essere l’elemento costitutivo e costituente del «nuovo ordine internazionale». Nessuno, dotato di un minimo di buon senso e di un approccio alla realtà non infarcito da bizzarrie, può sognarsi di negarlo.

Condizione necessaria e sufficiente, perché la guerra possa essere «concretamente» messa a regime, è la produzione di una macchina combattente, efficace ed efficiente in grado di interpretare al meglio il canovaccio che la guerra prevede. Se logistico, infrastrutture, armi più o meno sofisticate ecc. costituiscono un ruolo determinante nella messa a punto della macchina guerriera, il terminale di tutto ciò non può che essere il soldato.

Perché vi sia guerra deve esistere ed essere predisposto colui che questa tecnica prende tra le mani, e trasformi il suo potenziale di morte in distruzione concreta e reale. Questo è tanto più vero se, come le guerre in corso stanno ampiamente dimostrando, la loro natura asimmetrica costringe a rivedere le rosee ipotesi che la guerra high-tech aveva da tempo formulato e i combattimenti terrestri tornano ad assumere un ruolo preponderante, per non dire decisivo, all’interno dei vari scenari bellici.

I combattimenti terrestri presuppongono, è ovvio e al limite del banale, l’esistenza di un tipo umano che conviva abitualmente con l’idea della morte, che deve preferibilmente dare ma anche in qualche modo essere pronto a subire. Comunque li si voglia ridenominare: portatori di pace, garanti dei diritti umani, civilizzatori, operatori di polizia internazionale, i soldati sono addestrati, e non potrebbe essere altrimenti, per uccidere e annientare il maggior numero di nemici possibili. Ciò è tanto più vero per quelle formazioni militari deputate a fare la guerra in prima persona, ossia quei reparti che convenzionalmente sono definiti corpi d’élite, ovviamente si sta parlando delle truppe che combattono sotto un qualche organismo del mondo occidentale.

Nonostante il numero di militari impiegati nelle guerre in corso raggiunga cifre ragguardevoli, il peso reale dei combattimenti poggia su numeri di gran lunga inferiori. Ad esempio, nell’esercito Usa il numero dei combattenti effettivi è grosso modo il 10% della forza messa in campo. Essere un soldato di «prima linea» è ben diverso dall’essere un militare impiegato nella gestione del logistico, nell’inevitabile macchina burocratica che ogni guerra si porta dietro, nella gestione del servizio sanitario o altro ancora. I gruppi d’élite quindi rappresentano il paradigma ideale per provare a decifrare il tipo umano di cui le guerre attuali hanno bisogno.

Una facile risposta, al proposito, potrebbe fornirla la dimensione «esistenziale» o lo«stile di vita» propri delle formazioni d’élite, con tutti gli aspetti in qualche modo accattivanti in grado di suscitare. In realtà focalizzare lo sguardo su ciò finirebbe con il raccontarci ben poco sulla tipologia del soldato attualmente operante sui fronti di guerra, soprattutto un simile taglio non farebbe altro che restituirci un’immagine del combattente un po’ sempre uguale a se stessa, tanto da farci dubitare se stiamo parlando dei soldati di oggi o dei protagonisti dell’Anabasi. Soffermarsi su una certa propensione per l’avventura, fascino non secondario per uno«stile di vita» poco convenzionale sino ad arrivare a riconoscere il piacere che sono in grado di fornire situazioni definibili come «adrenalina pura», è qualcosa che può interessare nella migliore delle ipotesi la letteratura di genere, ma che, a ben vedere, finisce con il dirci ben poco sulla forma del nostro soldato. Le stesse ricadute «morali», che una certa linea di condotta mette in mostra, possono tutt’al più risultare suggestive per quelle quote di popolazione, ammesso che esistano sul serio, che sono solite scambiare le pubblicità del Mulino bianco con la vita reale.

Lo spirito di gruppo ancor prima che di Corpo, che anima e sovrasta la vita dei militari direttamente coinvolti nei combattimenti, non è poi così stupefacente, insolita e soprattutto innovativa. Chiunque abbia avuto a che fare con situazioni in cui a essere in gioco è la pelle, la propria salvezza o la salvaguardia della propria libertà, sa che tra il gruppo che va in azione si stabiliscono vincoli e legami solidali tali da andare ben al di là del generico cameratismo. Quando la vita dell’uno dipende dall’altro,non è poi così difficile immaginare il tipo di legame esclusivo e fraterno che si instaura. Allo stesso modo chi è abituato ad andare in azione tende a considerare il proprio gruppo, e più in generale tutti i combattenti, come qualcosa a sé che poco o nulla ha a che vedere con il resto dell’umanità, solitamente soggiogata da vincoli e procedure burocratiche, che poco si addicono allo spirito «autonomo e anarchico» delle forze combattenti. Chi sta in prima linea ha una notevole propensione per l’informalità, una certa avversione verso i rituali e le convenzioni pubbliche, poca stima e rispetto nei confronti delle gerarchie e autorità designate da una catena di comando burocraticamente determinata. Più che dal potere burocratico e formalizzato si sentono attratti e in sintonia con il carisma dei loro comandanti sul campo, con i quali condividono tutti i rischi dell’azione. Amano il capo militare che li guida in azione, detestano il graduato che, forte delle sue «scartoffie», impartisce ordini e comanda operazioni delle quali, in molti casi, sembra averne un’idea a dir poco approssimativa. In poche parole non si esce dalle suggestioni del Campo di Marte. Aspetti che cinematografia e letteratura di genere hanno sfruttato a piene mani ma che, a ben vedere, non fanno altro che raccontare una storia un po’ sempre uguale a se stessa.
Non è soffermandoci sugli aspetti propri del romanzo d’avventura che possiamo pensare di scoprire le caratteristiche «particolari» del tipo umano attualmente presente sui campi di battaglia. Più sobriamente occorre forse guardare la questione sotto un’altra luce, e partire dalla banale constatazione che il suo mestiere consiste nell’uccidere. Perché ciò sia possibile è necessario qualcosa di ben diverso da un imprecisato spirito d’avventura o amore per una vita poco convenzionale. Con ogni probabilità è il modo in cui viene messo a fuoco il nemico, con tutte le ricadute del caso, l’elemento in grado di offrire una spiegazione più convincente, ma non solo. Se la messa a fuoco del nemico deve essere una percezione certa e tale da rendere insignificante il tabù dell’omicidio, non meno decisivo appare il modo in cui, «concretamente », questo nemico è rappresentato perché sulla base di ciò prende forma anche il non secondario aspetto di come lo si affronta, nel bene e nel male.

Ed è qua che il nodo di Gordio delle guerre attuali può essere sciolto.
Per quanto professionalizzato e trasformato in una «macchina da guerra», come la formazione degli eserciti di professionisti tenderebbe a presentare, il soldato agisce sulla base di motivazioni «forti» e sarebbe al limite della stupidità domandargli di mantenere un tratto «avalutativo» nei confronti del suo operato. Se c’è una professione che mal si addice al modello weberiano questa è il mestiere del soldato. Per combattere ossia, fuor di metafora, uccidere ed essere uccisi, è necessario che entri in gioco qualcosa che ha necessariamente a che vedere con i «valori ultimi». Se un fucile può funzionare in maniera indistinta e per questo abbisogna solo di una buona e accurata manutenzione, al soldato non è sufficiente essere ben oliato, deve essere ottimamente motivato. Il modo in cui si autorappresenta il nemico diventa pertanto fondamentale.

Le parole di un «professionista» che ha operato in alcune missioni ne sono un’ottima esemplificazione.

Tu hai partecipato ad alcune missioni di pace. Con quale spirito le hai affrontate?

Intanto cominciamo col dire una cosa: in qualunque modo la cosa può essere presentata, tutti noi sappiamo che quello che ci aspetta è di andare in guerra. Come viene presentata è una cosa che, per convenienza loro, i politici la raccontano come gli viene meglio, ma come vanno sul serio le cose è tutto un altro discorso. Noi partiamo sapendo quello a cui andiamo incontro e con chi e che cosa avremo a che fare. Sappiamo che, in ogni caso, ci troveremmo di fronte un nemico spietato e barbaro che combatte per distruggere il nostro mondo e la nostra civiltà. Forse sarebbe più giusto dire che le nostre sono missioni di pacificazione piuttosto che di pace. Si che sono palesemente ostili verso tutto ciò che noi rappresentiamo e che non accettano di stare al loro posto. Tu sai che quelli non sono come te, sono altre razze, altre culture, altri modi di vedere il mondo, sai soprattutto che sono inferiori a te ma questo non vuol dire che non siano pericolosi. Anche i topi e gli scorpioni possono uccidere. La nostra superiorità, che ancora prima che militare è morale e culturale, non è neppure in discussione, per questo non possiamo che vincere, ma questo non vuol dire che le operazioni di pacificazione siano una passeggiata. Anzi, questo l’ho imparato direttamente sul campo, la guerra contro questo nemico è molto più dura di quanto onestamente mi sarei aspettato. Il problema è che sono come delle bestie feroci e sono in grado di sopportare condizioni a noi inimmaginabili. Me ne sono reso conto guardando a come reggono agli interrogatori. Hanno la stessa resistenza al dolore delle bestie e questo ti dice quanta differenza ci sia tra noi e loro. Sono capaci di bere litri di acqua sporca come se fosse Coca Cola oppure lasciarsi scorticare lanciando dei mugolii che mi ricordano quelli dei gatti quando da piccolo li prendevo e li scorticavo vivi, ma senza piegarsi. Non si tratta di eroismo, perché loro non sanno neppure cosa possa voler dire essere degli eroi, semplicemente il loro grado di sopportazione è la palese manifestazione della loro somiglianza alle bestie.

Eppure le immagini, specie dal Kosovo e dall’Afghanistan, vi mostrano mentre fornite cibo, mentre costruite scuole, ospedali e date aiuto alle popolazioni. Non è un po’ in contraddizione con quanto affermi?

Quelle sono messe in scena per la stampa. Si prende una zona non troppo devastata si radunano un po’ di civili che, in cambio di qualche cosa, mangiare, due spiccioli, la concessione di qualche privilegio, si prestano a recitare quelle parti. Quando in alcuni casi ci sono riprese in prima persona e pezzi di intervista , si tratta di civili che lavorano per noi e che la maggioranza della popolazione odia ancora più di noi perché li considera dei traditori. Appena ne hanno l’occasione gli fanno la pelle e se possono gli fanno anche rimpiangere di essere nati. Di civili ammazzati immagino che ne leggi tutti i giorni, ma sentirai parlare solo di quelli uccisi dai loro connazionali, non di quelli che facciamo fuori noi, anche perché se no non ci vorrebbe un giornale ma un’enciclopedia.

Che rapporto c’è tra voi e i civili?

Intanto bisogna dire che, dal nostro punto di vista, non esistono civili. Noi partiamo dal presupposto che quelli che ci troviamo di fronte sono tutti nemici. Che ci sparino addosso, piazzino le bombe o siano pronti a tenderci un’imboscata o lavorino per i terroristi dandogli appoggi, informazioni, nascondendoli, procurandogli cibo e medicinali ha poca importanza. Solo gli stupidi, o chi non c’è stato, può pensare che operiamo in luoghi dove siamo amati e benvoluti, quasi che non aspettassero altro di averci lì. Si vive in una situazione di odio reciproco dove è normale diffidare anche di quelli che fanno le spie per te. Non è scontato che non stiano facendo il doppio gioco. Perciò non si può parlare di un rapporto con i civili. L’unico rapporto possibile è quello che c’è tra la forza che noi imponiamo e la loro disponibilità o meno a sottomettersi e a riconoscerla. Forse gli unici civili che stanno con noi sono gli uomini legati al governo. Questi, grazie a noi e agli interessi politici che ci sono nel tenerli in piedi, si stanno facendo i sacchi. In quelle zone ci sono traffici di tutti i tipi e i governativi si prendono la loro stecca.

Che tipo di traffici?

Dipende dai posti. In alcuni prevale la droga, specie in Afghanistan, nei Balcani armi, donne, operai. E poi c’è il grande business degli aiuti umanitari, che finiscono nei depositi gestiti dalle forze militari e poi sul mercato nero. Sono tutti traffici in cui i governativi ci sguazzano.

In cosa consiste il business degli operai?

Dipende. Nei Balcani si tratta di reperire forza lavoro a prezzi bassissimi per gli imprenditori che si sono precipitati in quelle zone. C’è una richiesta fortissima e noi la soddisfiamo con i rastrellamenti. Andiamo in una zona, portiamo via tutti quelli in buone condizioni e li trasferiamo nei centri di raccolta da dove vengono smistati. I centri sono gestiti a volte dalle polizie private degli imprenditori o da gruppi criminali locali. In altre zone, soprattutto in Iraq, la raccolta degli operai è fatta per metterli a lavorare per le industrie che interessano agli inglesi e agli americani. Nell’area balcanica sono traffici privati che gli organismi ufficiali conoscono e tollerano ma senza entrarci direttamente, in altri posti sono invece direttamente gestiti dagli apparati.

Quindi questo comporta un modello di relazione con le popolazioni civili particolarmente teso?

Intanto ti ripeto che non ci sono militari e civili ma ci siamo noi e ci sono loro. Questa è la distinzione dalla quale devi partire. Questa non è una guerra come quella dei film, questa è la guerra vera ed è tra noi e loro. Non c’è niente che non riconduca alla guerra. Traffici a parte, che sono delle cose che ognuno si vede un po’ per conto suo, d’altra parte siamo lì anche per difendere il diritto alla libera iniziativa, cibo e medicinali li usiamo per tenere sotto pressione le popolazioni e costringerle a collaborare. Hai fame? Ti diamo delle scorte alimentari se ci dici tutto quello che sai o hai sentito dire sulla guerriglia. Tuo figlio sta male? Lo curiamo ma tu in cambio ci fai questo favore. Ecco, funziona un po’ tutto così. Poi quella è gente non diversa dagli animali e al massimo li puoi trattare come un animale un po’ addomesticato. Ma questa è una cosa che sanno tutti perché sono come gli extracomunitari che ci sono anche qua.

Lo spirito di conquista unito a una radicata convinzione di essere e rappresentare un grado umano superiore, che giustifica ampiamente fino a legalizzarla la dominazione, sembra il frame «culturale» che informa il nuovo combattente. Un aspetto che diventa più che evidente attraverso le parole di un altro appartenente alle truppe combattenti, specializzato in operazioni di controguerriglia psicologica. Una strategia il cui scopo è annichilire sul nascere qualunque tentativo di resistenza da parte delle popolazioni prese in cura e creare un totale asservimento allo strapotere messo in campo dagli «operatori umanitari».

In cosa consiste la controguerriglia psicologica della quale, per altro, ufficialmente nessuno ha mai sentito parlare?

Questo mi sembra abbastanza normale, semmai dovrebbe far scalpore il contrario. L’idea che i non addetti ai lavori hanno in genere della guerra è quella vista al cinema o alla tv, con i film della seconda guerra mondiale. Da tempo quel tipo di guerra non esiste più. È normale che almeno il 70% delle operazioni belliche siano oscurate o addirittura ufficialmente non compaiano da nessuna parte. Si tratta di operazioni coperte, così come tutta la conduzione della guerra è in qualche modo sotterranea. È vero per la controguerriglia psicologica così come per tanti altri aspetti. Per esempio le operazioni di bonifica. Raramente se ne sente parlare e, quando capita, le si fanno passare per operazioni contro postazioni ribelli. In realtà le battaglie ufficiali, quelle contro insediamenti della guerriglia, sono solo una piccola parte di quanto avviene sul campo, anche se sono le uniche continuamente mostrate. Questo perché, essendo le più vicine alla dimensione classica della guerra, sono quelle più facilmente mostrabili all’opinione pubblica. E anche queste, in ogni caso, sono mostrate in modo un po’ ridicolo perché sono sempre preorganizzate. Le riprese non avvengono mai in diretta ma sempre dopo. Così si può preventivamente selezionare il materiale video e, se ci fai caso, non si vede mai il campo di battaglia a operazione conclusa ma sempre in una fase iniziale. Altre volte si tratta di riprese del tutto simulate dove qualcuno recita la parte dell’assaltatore e, senza essere inquadrato, qualcuno spara qualche colpo fingendo di essere della guerriglia. Tanto è vero che non si vedono mai le armi che vengono usate negli assalti.

Ti riferisci al fosforo bianco?

A quello ma non solo. Il fosforo bianco è quello che ha fatto più scalpore semplicemente perché tutti ne sono venuti a conoscenza ma per arrostire i terroristi i modi sono tanti, ovviamente non possono essere mostrati. Anche questo, in realtà, è una parte del lavoro di controguerriglia psicologica. Un lavoro che consiste nel rendere impensabile, tra la popolazione, l’idea stessa di poter resistere o mostrarsi semplicemente ostili. La controguerriglia psicologica ha lo scopo di annientare la volontà del nemico. Non lasciargli speranze.

Al di là di tutto, quelle in cui siete impegnati sono missioni di guerra a tutti gli effetti che si potrebbero addirittura considerare come guerre totali?

Ma vedi, bisogna un po’ capire come funzionano le cose altrimenti si finisce con l’avere un’idea del tutto sballata delle guerre in cui siamo impegnati. Il primo problema che devi affrontare è far capire chi comanda. Devi togliere a quella popolazione ogni punto di riferimento e azzerare qualunque tipo di autorità, di qualunque tipo. Devi fargli capire che la loro vita e la loro morte dipendono solo da te che loro non sono niente. Che tu puoi tutto e loro niente. Questa è la prima fase, quella dove devi agire a tappeto. Non colpisci qualcuno perché è sospettato di qualcosa ma semplicemente perché sta lì davanti a te. Tu sei il suo padrone e lui il tuo servo. I modi sono tanti. La tecnica del gioco del bowling è uno di questi. Non devi esagerare però come impatto iniziale dà dei buoni effetti. Vai in giro con il blindato e ti scegli un obiettivo a caso e poi cominci a corrergli dietro. A volte,dopo averlo fatto correre un bel po’ lo lasci andare, altre lo schiacci e lo lasci spiaccicato come una formica. Questo è l’obiettivo. Nei tuoi confronti devono sentirsi impotenti come degli insetti, capire che tutto dipende da te e che loro non hanno alcun diritto e possibilità di opporsi. Un altro sistema importante è la violenza verso le donne davanti agli uomini della famiglia. Fare fottere la moglie, la madre o la sorella da 5-6 militari davanti ai maschi della famiglia è un modo per fargli perdere completamente l’autostima e farli regredire in uno stato catatonico dal quale non si riprendono più. Un altro sistema è quello di mitragliare, mentre passi, senza alcun motivo i passanti. Cioè, senza farla troppo lunga, la prima fase è quella del terrore. Non è selettiva ma serve a far capire chi guida le danze. Poi ci sono quelle maggiormente mirate. Un lavoro importante è la continua ridicolizzazione dei loro simboli che, a seconda dei casi, possono essere nazionali o religiosi. Le storie sul Corano, che ormai sanno tutti, sono una di queste tattiche. In questo modo, colpendo i simboli a cui si sentono maggiormente legati, se ne intacca la fiducia in profondità. Devi tenere presente che hai a che fare con gente che non è come noi, è molto più facilmente impressionabile e molto più attaccata a certe cose, sono un po’ dei creduloni e se gli fai rotolare nel fango i simboli a cui loro danno tanta importanza, per loro è uno choc che li annichilisce.

Testimonianze brevi ma sufficienti a raccontare pur qualcosa di quanto accade in giro per il mondo. Tuttavia, almeno un altro punto di vista, è parso il caso di ascoltarlo. In un’epoca in cui le battaglie per le «pari opportunità» suscitano passioni quasi incontrollate, la presenza di una «voce femminile » è per lo meno doverosa.
S. è una giovane militare che aspira a diventare «forza combattente». A breve sarà in discussione un provvedimento legislativo, sacrosanto, che dovrebbe togliere l’ultimo tabù presente nelle forze armate, che inibiscono la partecipazione delle donne ai reparti d’élite. Un divieto non solo ingiusto ma del tutto privo di senso visto che, dove impiegate, il «valore combattente» delle donne si mostra di solito più elevato di quello dei colleghi maschi e la loro determinazione operativa sovente è di gran lunga superiore a quella dei commilitoni dotati di fallo. Del resto i manuali di contro – guerriglia Nato, nel caso di attacco a una formazione terroristica, suggeriscono che se il gruppo operativo individua delle donne tra le forze avverse queste devono essere le prime a essere eliminate o neutralizzate perché, di solito, si rivelano le più ostiche oltre a essere le meno disponibili a negoziazioni o rese. Qualcosa vorrà ben dire.
In attesa del provvedimento legislativo S. si prepara con puntiglio ai test attitudinali ai quali sarà sottoposta. La passione per la guerra, anche se una certa predisposizioni per attività che le logiche di senso comune considerano poco femminili le ha coltivate da tempo, è maturata dopo la visione di Soldato Jane. Un fatto non proprio sorprendente che mostra quanto, nei nostri mondi, il rapporto tra fiction e realtà sia a dir poco tenue e come tra le due vi siano continue contaminazioni. Del resto, come ha ricordato Tommaso Buscetta, gli uomini di Cosa Nostra iniziarono a indossare abitualmente gli occhiali da sole scuri, ascrivendoli a segno distintivi degli «uomini d’onore», solo dopo l’uscita de Il Padrino. Il punto di vista che l’aspirante combattente a tutto tondo esprime è, almeno tra la sintetica carrellata di testimonianze proposte, quella che con ogni probabilità è in grado di riscuotere a piene mani consensi bipartisan.

Come nasce la tua vocazione per la carriera militare?

Fin da piccola sono sempre stata attratta dall’idea di intraprendere una carriera alla quale, di solito, le donne non aspirano o sono sconsigliate dal farlo. Dopo aver visto Soldato Jane questa scelta mi si è materializzata davanti. Mi sono identificata in lei e ho iniziato la mia personale battaglia per raggiungere quello scopo. Ho deciso di entrare nell’esercito e mi sto preparando a coronare il mio sogno: diventare effettivo di un’unità operativa.

Come consideri il veto che è ancora posto alle donne nei confronti di questa professione?

Esattamente un’ingiustizia e per più motivi. Soprattutto considero una contraddizione in termini negare l’accesso alle donne a una professione solo perché donne, senza tenere minimamente presente che, l’idoneità al combattimento, non può essere risolta in termini generali ma particolari. È una scelta selettiva che deve tenere conto delle attitudini individuali le quali, con l’appartenere a un genere piuttosto che a un altro hanno ben poco a che fare. In più questo contraddice palesemente i valori per cui il mondo libero si sta battendo e per i quali io credo sia fondamentalmente giusto combattere senza tentennamenti. La guerra che giustamente stiamo combattendo contro il terrorismo globale è condotta in nome di quanto ci è di più caro: la libertà individuale, una società fondata sulla meritocrazia e quindi sulla libera concorrenza di tutti gli individui e la loro concreta possibilità a misurarsi nelle sfide della vita, una società non schiacciata in basso ma che consente a ciascuno di farsi valere per ciò che è. Quindi impedire a priori a una donna l’accesso alle unità combattenti lo trovo in aperta contraddizioni verso tutto ciò in cui crediamo. Fortunatamente il buon senso sembra che stia per prevalere e le selezioni saranno basate unicamente sui test che ogni candidato dovrà affrontare. A quel punto penso di potermela giocare fino in fondo.

Quindi, se tutto andrà per il meglio, tra non molto potresti essere schierata in prima linea in zone di guerra. Con quale spirito ti accingi a farlo?

Con lo spirito e la certezza di essere dalla parte del giusto. Per combattere, dato per scontato la necessità di un’adeguata preparazione e di una manifestata idoneità a reggere il conflitto sul campo, occorre una motivazione. Una determinazione che non puoi certo trovare solo nella consapevolezza di saper fare bene il tuo mestiere. Fare il soldato non è come andare a fare l’impiegato in comune, non puoi non sentirti coinvolto in ciò che fai. Quindi la motivazione che ti spinge a combattere finisce con l’avere un peso fondamentale. Tu sai che vai a uccidere, perché poi è inutile girarci tanto in giro, la guerra è questa: uccidere il nemico e non è una cosa che puoi fare senza aver chiaro chi è e perché lo stai per annientare. Se così non fosse, non saresti più un soldato ma un killer a pagamento e noi militari non siamo certo degli assassini prezzolati. Quindi, questa non è una cosa solo mia sia chiaro ma è ciò che nell’esercito si dice con molta chiarezza, l’idea di contro chi ci battiamo è molto chiara e del perché ci battiamo ne siamo non solo coscienti ma orgogliosi. Sotto certi aspetti, la guerra attuale, è un po’ la continuazione della guerra contro il comunismo. Anche adesso si tratta di liberare il mondo da un modello totalitario che schiaccia gli individui e li trasforma in semplice massa di manovra. Un nemico che vive e prospera, non diversamente dal comunismo, sull’ignoranza e l’azzeramento dell’individualità alla quale, per di più, aggiunge il fanatismo religioso e un modello di società organizzato per caste. Tutto ciò contro il quale le società occidentali si sono da sempre battute.

Quindi è un nemico a dir poco assoluto nei confronti del quale non è pensabile un riconoscimento di pari dignità?

No questo mi sembra del tutto impensabile. La guerra in corso non è condotta contro un esercito simile al tuo, a cambiare non è il colore di una divisa ma due idee del mondo e della vita totalmente diverse. Da una parte c’è la civiltà, il benessere, la libertà dall’altra barbarie, fanatismo, tribalismo. È uno scontro tra due mondi. Da una parte l’Occidente progredito, intraprendente e civile, dall’altra popolazioni il cui sviluppo si è attestato a livello inferiore dando forma a società obiettivamente inferiori alle nostre. Credo che, sulla base di quanto la storia ha dimostrato, l’Occidente può vantare a pieno titolo una supremazia su queste popolazioni e non può e non deve tollerare di essere minacciato da queste. In gioco c’è il modello di vita occidentale, al quale non possiamo e aggiungerei non vogliamo rinunciare in alcun modo.

Quindi contro questo nemico non ci sono e non ci possono essere mezzi termini?

Senza voler scandalizzare nessuno anche se ultimamente non sono in pochi a parlarne in positivo, penso che nei confronti di queste popolazioni, non solo per la nostra sicurezza ma anche per il loro benessere, il colonialismo non sia poi una soluzione così detestabile. A quale stadio di civiltà sarebbero molti popoli se non avessero potuto usufruire dei benefici del colonialismo inglese o francese? In quali condizioni sarebbero precipitate intere aree del mondo se, anni addietro, gli americani con i loro interventi a tutti i livelli non fossero intervenuti per bloccare l’espansione comunista? Cosa sarebbero diventate queste popolazioni se le avessimo lasciate da sole? Credo che queste sono le domande alle quali noi, e come soldati per primi, siamo chiamati a rispondere. Allora mi chiedevi qual è il limite da adottare nei confronti di questo nemico? La risposta non è complicata. Nessun limite nei confronti delle forze ostili e al contempo un graduale inserimento di quella parte di popolazione che si mostra più adatta o adattabile ai valori del mondo occidentale. Credo che la nostra missione sia essenzialmente una missione di civilizzazione ma non puoi civilizzare un posto se prima non hai eliminato la teppa che lo infesta. E il nemico che combattiamo non merita un riconoscimento e una stima diversa da quella che riserviamo al teppista di strada. Per questo prima è necessario bonificare in profondità il territorio.

A qualunque prezzo?

Non si possono fare le frittate senza rompere le uova.

Al di là degli aspetti più truci e sanguinari quanto raccontato nelle interviste è meno eccezionale di quanto potrebbe apparire, e il tipo umano messo in forma dagli scenari bellici contemporanei, ben lungi dall’essere l’aporia del nostro tempo, non fa che incarnare fino alle estreme conseguenze il tipo umano comunemente riscontrabile nei nostri mondi.
Il modo in cui si combatte è lo specchio, forse solo leggermente ingigantito, di un modello socio-culturale condiviso. In un’altra epoca Ernest Junger tornò deluso dai Lidi africani scoprendo che la forma guerra era facilmente riscontrabile nella «fabbrica» e che le differenze tra il legionario e l’«operaio » si riducevano al sottile alone di «romanticismo» necessario alla Legione per continuare a vendere il suo prodotto.

Non diversamente, oggi, le retoriche che animano i corpi d’élite sono la prosecuzione operativa del processo di svalutazione dell’altro, abitualmente messo in circolo nei nostri mondi, e la guerra non sembra essere altro che l’estensione della guerra quotidianamente combattuta contro i «clandestini ». Basta pensare al numero di cadaveri «clandestini» di cui i mari delle nostre coste, militarmente presidiate, fanno abitualmente incetta. Morti senza volto, per nulla diversi dai corpi profanati, torturati, bruciati e stuprati nelle varie zone di guerra e per di più totalmente inermi. A loro non è concessa neppure la carta estrema del «suicidio combattente» come, nel caso dei «kamikaze», la guerra asimmetrica sembra concedere a molti popoli come forma ultima di resistenza.

Con estrema semplicità e senza alcun clamore muoiono ingoiati dai flutti. Uno spettacolo che ciascuno può gustarsi seduto in poltrona insieme al suo corollario: il trasferimento dei sopravvissuti nei lager. In poche parole bisogna pur riconoscere l’assenza di enfasi quando, rivolgendoci ai nostri soldati combattenti, li apostrofiamo benevolmente come «i nostri ragazzi». In effetti stanno facendo, senza se e senza ma, ciò che noi gli abbiamo chiesto e, al di là delle loro esperienze estreme, quel tipo umano è lo stesso che ritroviamo ogni giorno guardandoci allo specchio. Siamo partiti con non poco entusiasmo per andare alla ricerca di un particolare tipo umano, ma con non poca delusione siamo giunti a una scoperta stupida e terrificante, la stessa alla quale era pervenuta Arendt in uno dei suoi scritti più suggestivi: dietro l’orrore dell’olocausto e della tragedia nazista non vi era nulla di eccezionale ma la prosaica banalità del male dell’uomo qualunque.

La nostra banalità.

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